I’m Too Young to Die

La guida definitiva di Bitmap Books agli shooter in prima persona.

Il nuovo libro di Bitmap Books, “I’m Too Young To Die: The Ultimate Guide to First-Person Shooters 1992–2002”, a cura di Stuart Maine, un interessante spunto di riflessione lo offre già dal titolo, precisando come a venir presi in considerazione siano solamente i giochi usciti in un periodo di tempo ben circoscritto: si parte dal 1992 e si chiude con il 2002. La ragion d’essere della prima data è facile intuirla, è l’anno in cui id Software—sulla storia di questo fondamentale studio di sviluppo trovate due lunghi articoli qui su Ludica—pubblica Wolfenstein 3D, tradizionalmente considerato il capostipite del genere. Un titolo che, naturalmente, non sbuca fuori dal nulla: come ricorda John Romero nella prefazione, il suo design era profondamente influenzato dai giochi a labirinto degli anni Ottanta, il cui esponente più famoso è senz’altro Pac-Man ma che già offrivano pure esperienze in (finte) tre dimensioni con titoli come 3D Monster Maze per Sinclair ZX81. Per approfondire tali origini—Wolfenstein 3D conteneva peraltro un livello segreto che omaggiava Pac-Man—nel libro pubblicato da Bitmap Books un’intera sezione viene dedicata ai precursori del genere.

Meno immediato è invece capire cosa finisca, di preciso, nel 2002: gli shooter in prima persona non restano tuttora uno dei generi più popolari? Dipende da cosa intendiamo. Se ci riferiamo agli sparatutto delle grandi arene, delle labirintiche mappe dal level design impeccabile, dei nemici che sembrano non finire mai e delle munizioni praticamente infinite, allora è un genere decisamente in declino. Anche altri generi se la passano abbastanza male rispetto ai fasti del passato: le avventure grafiche, come certi generi musicali non più in voga, sopravvivono ormai solo in una nicchia; e gli strategici in tempo reale sono rimasti intrappolati in una linea temporale in cui si gioca per sempre a Age of Empires e Starcraft. Agli shooter—a quegli shooter—è toccata però una sorte ancora peggiore: sono diventati un affare nostalgico, a conti fatti l’unica sentenza di morte davvero inappellabile e definitiva. I migliori shooter recenti sono stati realizzati con l’intenzione di restituire le caratteristiche dei classici, dal gameplay alla grafica: è come se gli sviluppatori di questi giochi—definiti non a caso retro-shooter, ne avevamo parlato qualche tempo fa—si siano arresi all’idea che, relativamente a quella formula, non ci siano più nuove strade da percorrere, altre innovazioni da proporre. Potrebbero avere ragione loro.

(Fonte: Chris Daw/Bitmap Books)

La prima volta che ho avuto anch’io questa impressione è stata giocando il reboot di Doom, pubblicato nel 2016. I movimenti avevano una fluidità incredibile, la mobilità dei nemici era estrema, gli scontri nelle arene risultavano sempre divertenti e dinamici, eppure alla fine era impossibile non chiedersi: tutto qui? I pixel del Doom originale, quello del 1993, potevano solo suggerire la fisionomia di mostri che, alla fine, potevano essere qualsiasi cosa. L’alta definizione del reboot invece i mostri li mostrava in maniera dettagliata, anatomicamente studiabile (soprattutto con le glory kills), ma all’improvviso molto meno interessante. Uno shooter di oggi non può reggere il confronto con uno shooter anni Novanta per lo stesso motivo per cui un film è sempre peggiore del libro da cui è tratto: lascia molto meno spazio all’immaginazione. E perché è tanto importante che lo shooter lasci spazio all’immaginazione? Perché, di solito, non ha mai una grande storia da raccontare. E perché, di solito, non ha mai una grande storia da raccontare? Beh, lo dice il nome.

Innanzitutto si tratta, appunto, di shooter, e quando tutto ciò che si muove sullo schermo è un bersaglio da eliminare i margini per sviluppare una storia si riducono. Lo notava già una celebre recensione di Doom, apparsa sul numero 7 di Edge, uscito nell’aprile del 1994, che si concludeva così: “lf only you could talk to these creatures, then perhaps you could try and make friends with them, form alliances… Now, that would be interesting”. Una frase al contempo ingenua e profonda, in grado di fraintendere completamente cosa fosse Doom e di evidenziare immediatamente quali ne fossero i limiti. In secondo luogo, si tratta di giochi in prima persona, una visuale attraverso la quale è difficile raccontare una storia; di norma, infatti, una storia, ad esempio quella raccontata da un romanzo o da un film, ha un protagonista, che non è chi legge o chi guarda, ma un personaggio con cui si viene chiamati a identificarsi. Per quale motivo nei videogiochi sarebbe dovuto accadere qualcosa di diverso?

Quando nel 2015 uscì Hardcore Henry, un film d’azione interamente girato in prima persona con una GoPro, ci fu chi si domandò se non fosse infine giunto il momento, per il medium cinematografico, di aprirsi alle novità introdotte da quello videoludico. In realtà, già da tempo era in atto un fenomeno molto più banale, vale a dire l’esatto opposto. I videogiochi avevano iniziato da un pezzo a proporre sempre più di frequente cutscene di stampo cinematografico, fedeli cioè alle regole e alle convenzioni tipiche dei film—ad esempio campi medi per le sequenze d’azione, primi e primissimi piani per i dialoghi. Soprattutto, avevano imparato quali fossero i vantaggi della visuale in terza persona, a partire dalla possibilità di creare personaggi capaci di imporsi nell’immaginario collettivo, come Lara Croft, che già negli anni Novanta godeva, rispetto al cosiddetto Doomguy, dell’innegabile vantaggio di possedere un volto e un corpo.

(Fonte: Chris Daw/Bitmap Books)

Per non parlare poi dei vantaggi della terza persona in termini di gameplay, e quindi di interazione con l’ambiente circostante—in prima persona, si sa, è più difficile valutare le distanze, e la visione periferica è molto limitata—e di personalizzazione, con l’introduzione di innumerevoli opzioni per favorire proprio il meccanismo dell’identificazione (personaggio maschile o femminile, forma del viso, colore di pelle, occhi e capelli, vestiti, e così via).

Allo shooter in prima persona, insomma, a un certo punto non è rimasta altra scelta che evolvere. Niente di troppo difficile, per un genere che ha storicamente avuto una profonda connessione con le innovazioni tecnologiche. Di pari passo con l’arrivo di processori più potenti e delle prime schede grafiche dedicate, gli shooter hanno infatti proposto mondi sempre più complessi ed entusiasmanti, diventando il miglior spot pubblicitario possibile per le capacità del nuovo hardware. Da Doom—un titolo che sembra poter girare ovunque, dalle vecchie macchine fotografiche digitali ai test di gravidanza: esiste persino un Tumblr dedicato—a Crysisdivenuto un meme perché, al contrario, in un certo periodo sembrava non esistere nemmeno, l’hardware adatto a giocarlo—si può tracciare un percorso piuttosto chiaro in tal senso. Lo stesso libro di Bitmap Books organizza i suoi contenuti in ordine cronologico, evidenziando così, anno dopo anno, i progressi compiuti tanto dal genere quanto dalla tecnologia.

L’esigenza di evolvere di cui parliamo qui, però, è diversa: si tratta ora di trasformare i limiti che abbiamo visto in punti di forza. Così, la componente shooter va a dare forma a formule competitive sempre più elaborate rispetto ai deathmatch delle prime modalità multiplayer, lasciando alle dinamiche tra giocatori e tra squadre il compito di far emergere una narrazione certo minima, ma differente e imprevedibile ad ogni partita. Per quanto riguarda la prima persona, invece, si trova presto un modo per esaltare il livello superiore di immersività consentito da questo tipo di visuale nel modo più ovvio, vale a dire raccontando storie in cui l’isolamento del protagonista è funzionale alla trama: da Half-Life a Prey, passando per BioShock, è la storia della nascita dell’immersive sim, in cui il gunplay appare talvolta uno strano retaggio del passato.

(Fonte: Chris Daw/Bitmap Books)

Si arriva così alla fine degli shooter, o quantomeno degli shooter nella forma con cui il genere si è affermato nel corso degli anni Novanta, oggi riproposta solamente dai franchise più duri a morire, come Doom o Serious Sam, e dai retro-shooter. In questo senso “I’m Too Young To Die: The Ultimate Guide to First-Person Shooters 1992–2002” appare come una guida completa: non solo perché i titoli trattati sono più di 180 in totale, e ci sono dunque tutti i giochi che vi aspettereste di trovare ma anche molti di cui sentirete parlare per la prima volta; non solo perché vengono intervistate tutte le persone da cui vi vorreste far raccontare qualcosa a proposito di shooter—John Romero, Ken Silverman, Scott Miller, David Doak, Randy Pitchford, John Howard, Warren Spector, Karl Deckard, e tanti altri ancora; ma anche perché, come abbiamo visto, la storia di quegli shooter è finita.

Allora, per concludere, proviamo a stabilirlo una volta per tutte, com’è finita questa storia: cos’è successo nel 2002? Tra marzo e aprile uscì anche in Europa e in Giappone il primo capitolo di Halo, già pubblicato in Nord America nel novembre dell’anno precedente. Inserendosi in un genere già fortemente orientato al multiplayer (Quake III Arena, Unreal Tournament) e alla narrazione (Half-Life, System Shock 2), la creazione di Bungie, programmatica già dal nome completo (Halo: Combat Evolved), dava il colpo di grazia agli shooter classici con una semplice trovata: lo scudo autorigenerante, a cui si sarebbe aggiunto con Halo 2 il recupero automatico anche della salute. Non una novità assoluta, per quanto poi sia difficile ricostruirne le origini (un indiziato è Hydlide, del 1984), ma sicuramente una caratteristica presentata per la prima volta a un vasto pubblico, a milioni di giocatori, in uno shooter. Ecco, quando per sopravvivere è diventato sufficiente starsene al riparo per un po’, quando ha smesso di essere necessario andare alla disperata ricerca di un medikit, in quel preciso momento è forse finita la storia di quegli shooter in prima persona. Forse, anche loro, troppo giovani per morire.