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L’interfaccia come strumento narrativo.

A metà degli anni ‘80 l’emittente televisiva giapponese TBS iniziò a trasmettere un programma piuttosto particolare: Takeshi’s Castle, sadico game show i cui concorrenti venivano allegramente sottoposti a sfide assurde, umilianti e talvolta dolorose. Il programma ottenne ascolti stellari e divenne un fenomeno di culto anche all’estero, incrementando esponenzialmente la già notevole fama del suo creatore, il poliedrico comico, attore e regista Takeshi Kitano.

Sull’onda della popolarità di Kitano, nel 1986 uscì per NES Takeshi no Chōsenjō, “La lettera di sfida di Takeshi”. Il videogioco progettato da Kitano si muove su basi filosofiche molto simili a quelle del suo castello, chiamando il giocatore a una serie di compiti tutt’altro che divertenti come divorziare, cantare al karaoke per un’ora di fila o aspettarne quattro tenendo premuto il taso SELECT per tutto il tempo. Il gioco vendette ben 800.000 copie, ma venne stroncato dalla critica, guadagnandosi presto la nomea di kusoge (letteralmente gioco di merda).

L’unicità e la divertita cattiveria di Takeshi no Chōsenjō hanno tuttavia fatto sì che diventasse a suo modo leggendario. Youtuber e streamer più o meno famosi continuano a giocarlo e presentarne le assurdità al pubblico, e il titolo è ancora discusso su forum e blog di settore, su cui viene talvolta definito come l’“anti-gioco” per eccellenza.

Trovo che sia una definizione calzante. In un certo senso, la lettera di sfida di Kitano era indirizzata non solo al singolo videogiocatore, ma all’intero mezzo videoludico: l’attore ha più volte affermato di detestare i videogiochi e di ritenerli un’inutile perdita di tempo. Conoscendo il personaggio non è detto che lo pensi davvero, ma questa visione nichilista del videogioco è portata all’estremo in un’altra peculiarità di Takeshi no Chōsenjō, cioè la possibilità di portarlo a termine senza giocarlo. Facendo tirare al personaggio giocante trentamila pugni nel menu iniziale è infatti possibile accedere direttamente all’ultimo quadro, ottenendo così il privilegio di sentirsi chiedere da un sorridente Kitano in 8 bit: “Perché ti sei impegnato tanto per una cosa del genere?”

Genuino o farsesco che sia, il disprezzo di Kitano per il mezzo videoludico lo ha portato a esplorare uno degli aspetti secondo me più affascinanti del videogioco, ovvero la sua capacità di integrare nel narrato ciò che esiste attorno a esso: i menu, le cartelle di gioco, lo stesso hardware su cui gira.

Metal Gear Solid (Konami, 1998)

Chi ha all’incirca la mia età ricorderà di certo uno dei momenti che hanno definito la quinta generazione di console: lo scontro con Psycho Mantis, il boss del primo Metal Gear Solid in grado di leggere la “memoria” di chi giocava, cioè la sua memory card, commentando il numero di salvataggi presenti e citando gli altri titoli Konami presenti sulla scheda di salvataggio. Ma la principale caratteristica di Psycho Mantis era la sua capacità di prevedere i movimenti del personaggio giocante leggendo gli input del gamepad: per sconfiggerlo era necessario spostare il pad nella porta riservata al secondo giocatore, impedendogli così di leggerci nella mente.

Non è un caso unico in Metal Gear Solid, serie in cui la componente metanarrativa è sempre stata forte. Nel corso della serie, Hideo Kojima sfonda continuamente la quarta parete, in particolare nei dialoghi: i personaggi danno consigli riferendosi direttamente a chi gioca, o avvisano che in caso di sconfitta dovrà rifare un bel pezzo di strada; a mio parere però, l’effetto sul giocatore di questi attimi di gioco non è diverso da quello che sortirebbe su un lettore il trovarsi chiamato in causa dal personaggio di un romanzo, o l’appello di un attore sulla platea di un film o di uno spettacolo teatrale.

Lo scontro con Psycho Mantis invece brilla perché sfrutta le caratteristiche intrinseche del videogioco, ovvero i meccanismi propri del mezzo (come l’input meccanico di chi gioca) e i dispositivi che ne consentono la fruizione (la scheda di salvataggio, il joypad); anche gli elementi normalmente considerati accessori diventano così parte della narrazione.

Nel secondo capitolo del saggio Semiotica dei videogiochi, Massimo Maietti discute le “soglie” del videogioco, cioè quegli elementi che pur non essendo ancora, o non essendo più, videogioco, lo definiscono e ne permettono la fruizione. Il suo scopo era dichiaratamente quello di escludere quanto esiste intorno al “testo” del videogioco, così da poterne ottenere una definizione semiotica; soffermandosi un attimo su queste soglie ci si accorge però che sono esse stesse molto interessanti.

Tra gli elementi esterni individuati da Maietti, i dispositivi di input e controllo come joypad, mouse e tastiera (ma anche chitarre, volanti, canne da pesca…) sono quelli che giudica più intimamente legati al videogioco; loro corrispondente interno al medium videoludico sono le interfacce e il sistema di comandi, il tramite attraverso cui i movimenti del giocatore nel mondo reale influenzano il mondo finzionale. Ciò che contraddistingue le interfacce videoludiche è la loro metaproprietà interattiva, cioè il modo in cui, tramite l’azione del giocatore, possono definire il mondo di gioco pur essendo poste al loro esterno. Ma cosa succede se il coinvolgimento dell’interfaccia diventa anche ludico-narrativo?

Bravely Default (Square Enix, 2012)

Ci sono titoli in cui è l’interfaccia a essere definita dagli sviluppi narrativi del mondo di gioco. Un cambiamento nella schermata iniziale di Bravely Default, titolo 3DS prodotto da Square Enix nel 2012, suggerisce un’importante svolta di trama: il sottotitolo “where the fairy flies” si oscura parzialmente, lasciando visibili solo le lettere “airy lies” in riferimento al tradimento di un personaggio non giocante. Essendo questa informazione reperibile anche nei dialoghi di gioco, il meccanismo di narrativizzazione del menu è qui solo parziale, ma denota comunque un coinvolgimento nella trama di qualcosa percepibile come esterno al mondo di gioco.

In Undertale, celeberrimo gioco di ruolo a turni creato dallo sviluppatore indipendente Toby Fox nel 2015, gli incontri con gli avversari vengono affrontati navigando un menu composto da quattro grossi bottoni, tra cui “FIGHT” e “MERCY”, che permettono un differente approccio alla risoluzione del conflitto. Un boss, tuttavia, rompe la quarta parete per distruggere il pulsante “MERCY”, andando a modificare un aspetto dell’interfaccia di gioco e impattando di conseguenza sulle possibilità narrative a disposizione del giocatore.

Per evitare di venire uccisi dall’urlo di un fantasma in Paranormasight: The Seven Mysteries of Honjo, videogioco horror sviluppato e pubblicato nel 2023 da Square Enix, è necessario azzerare il volume di gioco nel menu delle opzioni audio. Il menu diventa quindi un elemento fondamentale al procedimento narrativo del gioco. Un meccanismo simile si è visto anche nel gioco horror del 2022 A pet shop after dark, della sviluppatrice indipendente giapponese npckc, dove per risolvere un rompicapo si deve inserire una sequenza precisa utilizzando le barre del menu audio.

Forse è già evidente un pattern: molti dei giochi che sfumano la differenza tra narrativo e non-narrativo, tra dentro e fuori sono di genere horror. Probabilmente perché, come già accennato, questo meccanismo amplifica la capacità del videogioco di integrare al suo interno ciò che lo circonda, coinvolgendo in modo diretto chi gioca e accrescendo di conseguenza la sua sensazione di paura.

Negli ultimi mesi è andato stabilendosi un intero sottogenere di videogiochi horror la cui premessa è quella di ambientarsi all’interno di un sistema operativo fittizio, presentato di solito come desueto prendendo in prestito l’estetica informatica dei primi anni 2000, le cui schermate vanno a sostituire quelle del sistema in uso, da cui spesso derivano anche il nome utente e l’ora per aumentarne il realismo.

KinitoPET (troy_en, 2024)

KinitoPET, opera dello sviluppatore indipendente troy_en pubblicata su Steam a gennaio del 2024, è forse uno degli esponenti più riusciti del sottogenere. Chi gioca si trova a interagire con un inquietante assistente virtuale (una roba alla Clippy, per intenderci), un axolotl chiamato appunto KinitoPET. Oltre a emulare uno spazio normalmente non ludico trasferendolo nella dimensione di gioco, KinitoPET sfrutta le varie periferiche del PC, come la webcam e la stampante. L’identificazione del videogioco con l’hardware che lo ospita è così completa; ed essendo l’hardware qualcosa di tangibile, è come se tutta la realtà diventasse parte del meccanismo ludico-narrativo, e la minaccia posta da KinitoPET più concreta.

Altro caso che reputo molto interessante è la visual novel del 2017 Doki Doki Literature Club! sviluppata dall’indipendente Team Salvato. Il gioco inizia come un normale dating sim in cui il protagonista interagisce con i tre personaggi femminili proposti dal gioco come opzioni romantiche; presto, però, il gioco inizia a glitcharsi e le ragazze a fare una brutta fine, eliminate una dopo l’altra da Monika, la presidentessa del club letterario di cui le altre ragazze fanno parte. Monika non viene considerata dal gioco un’opzione romantica, ma finisce per innamorarsi del giocatore. Attenzione: del giocatore, non del personaggio giocante; essendo pienamente consapevole di trovarsi all’interno di una finzione narrativa, Monika non nutre alcun interesse per il nostro avatar e nemmeno per gli altri personaggi di gioco o per l’ambientazione, che non si fa scrupoli a cancellare.

Il gioco sperimentato fino a quel momento viene così smantellato dall’interno, dichiaratamente ridotto a una farsa insignificante: l’unica vera interazione a disposizione del giocatore, ormai perfettamente sovrapposto al personaggio giocante, è quella con Monika; per restituire il gioco alla dimensione ludica è necessario eliminare il file di Monika dalla cartella di installazione, che diventa quindi uno strumento narrativo a disposizione del gioco.

Tornando a Hideo Kojima, nel suo libro Il gene del talento, lo sviluppatore giapponese afferma: “Voglio che i giocatori possano sperimentare qualcosa che può essere ottenuto soltanto in ambito videoludico, ma che nessuno prima di me abbia mai tentato. Altrimenti non avrebbe senso creare, per me”.

Personalmente penso che questo concetto sia applicabile qualsiasi atto di creazione artistica e narrativa, che dovrebbe essere diversamente indirizzato a seconda del mezzo prescelto; in tal senso, la volontà (più o meno consapevole) di molti sviluppatori, in particolare di quelli indipendenti, di sfruttare in chiave ludica il rapportarsi tra continuum narrativo e interfaccia di gioco offre possibilità di grandissimo interesse artistico a un medium che ha ancora tanto di inesplorato.