Gli hyper-casual game hanno riscontrato negli ultimi anni un enorme successo di pubblico e di mercato in virtù di meccaniche semplici e immediate e di un modello free-to-play basato sulla pubblicità. Se queste caratteristiche non sono una novità per i giochi mobile, la strategia di produzione data-driven e la fabbricazione “in serie” di giochi con variazioni minime nel game design costituiscono invece elementi inediti capaci di connotare in maniera ben precisa queste produzioni e l’esperienza di gioco degli utenti, facendo pensare a essi come a un vero e proprio genere.
Si prendano dei giochi mobile come Helix Jump, aquapark.io o Stack Ball. Cosa li accomuna? Sono giochi gratuiti di estrema semplicità, con un buon piazzamento nelle classifiche degli store Apple e Google, delle ottime valutazioni degli utenti e un elevato numero di download. Ma non solo: sono anche prodotti da publisher—Voodoo e Azur Games—leader nel mercato dei cosiddetti “hyper-casual games”, una tipologia di giochi per dispositivi mobile molto popolare e particolarmente redditizia, che presenta un insieme di caratteristiche codificate in maniera talmente specifica da meritare un minimo di interesse.
Una tipologia di business model
L’etichetta “hyper-casual” è utilizzata nell’industria dei giochi mobile per designare quei prodotti—solitamente free-to-play—caratterizzati da meccaniche di gioco estremamente semplici (devono poter essere giocabili immediatamente dopo il download), da una grafica prevalentemente in 2D e soprattutto—qui sta una differenza importante con altre tipologie di giochi casual—da un modello economico basato principalmente sulla pubblicità: quando si lancia uno di questi giochi si dovrà infatti disporre della connessione a internet per poter accettare la stessa tipologia di banner RGPD presente sui siti web, attivando così la profilazione da parte degli inserzionisti.
Come in ogni medium monetizzato con la pubblicità, lo scopo è quello di massimizzare il tempo di utilizzo degli utenti per far sì che essi siano esposti al maggio numero di ads possibile. Associata solitamente a questi titoli—in maniera tutt’altro che estrinseca—è infatti la capacità di creare dipendenza nei giocatori: fenomeno favorito da specifiche meccaniche di gameplay (di tipo endless o a tempo), dall’assenza di obbiettivi e da una curva di apprendimento molto bassa: chiunque in sostanza può padroneggiare il gameplay in qualche secondo; il che fa sì che gli hyper-casual games possano essere giocati in maniera istantanea e potenzialmente per molto tempo.
Tali caratteristiche
Se tuttavia l’analisi quantitativa apre senz’altro la strada alla comprensione del fenomeno degli hyper-casual games, essa allo stesso tempo sollecita un altro livello di descrizione più specificamente qualitativo, in cui ciò che interessa è il modo in cui le caratteristiche tecniche e il modello economico di questi giochi influenzano la loro resa estetica e, con ciò, l’esperienza degli utenti.
L’esperienza hyper-casual
I titoli hyper-casual nascono per intrattenere i giocatori in brevi o brevissimi lassi di tempo con meccaniche di gioco semplici e accattivanti, in modo che essi da un lato provino soddisfazione—secondo un report di Facebook la maggioranza degli utenti giocherebbe a questi titoli per alleviare lo stress—e dall’altro siano però portati a voler giocare ancora, perché la partita non li ha del tutto appagati: molti giochi sono infatti a tempo o diventano meccanicamente difficili

Queste modalità di fruizione e di monetizzazione sembrano in qualche modo apparentare l’esperienza di questi giochi a quella dei social network. E ciò non soltanto da un punto di vista psicologico (un passatempo di alcuni minuti per alleviare lo stress, come nell’esperienza di scrolling) o economico (la monetizzazione tramite banner interstitial tra una partita e l’altra per indirizzare a giochi simili). Spostandosi su un diverso livello di analisi, si possono trovare analogie interpretative anche da un punto di vista semiotico, in virtù del carattere intrinsecamente pubblicitario di questi prodotti: i quali, durante ogni partita, si rimandano l’un l’altro come in un sistema, tramite banner, link e demo, in un’esperienza di gioco e di promozione potenzialmente infinita.
Bisogna anche sottolineare come ciò che conta per i publisher nei titoli hyper-casual non sia tanto la user retention—e infatti il ciclo di vita di questi giochi è solitamente abbastanza breve; KPI imprescindibile per le publisher house è piuttosto il numero di download. Da qui l’importanza delle demo giocabili e dei link finalizzati allo scaricamento diretto sugli store: i giochi possono essere provati, scaricati e giocati in un batter d’occhio. Un sistema di promozione efficace per i publisher che configura allo stesso tempo un’esperienza di gioco molto specifica per gli utenti.
Per rendersi conto dell’enormità—e, cosa ancora più notevole, della ripetitività dell’offerta—basta fare un giro sugli store di publisher come i sopracitati Voodoo e Azur Games o di altri big come Ketchapp e Kwalee. Questa offerta mastodontica è rivelatrice del funzionamento di questa industria e porta a soffermarsi su aspetti della produzione di questi titoli che sono particolarmente interessanti dal punto di vista delle meccaniche videoludiche.
La fabbrica del gameplay
La constatazione che gli hyper-casual game puntano più sulla quantità che non sulla quantità sembra vera in due sensi: da un lato i publisher si preoccupano meno della user retention che non della capacità di raggiungere un pubblico più vasto possibile; dall’altro, l’importanza maggiore la hanno le meccaniche di gioco semplici ed efficaci e non il game design.
Publisher come Voodoo o Kwalee hanno cominciato a produrre questi titoli secondo una precisa strategia data-driven, con rigorosi procedimenti basati sui dati per selezionare le forme di gameplay più semplici, immediate e potenzialmente di successo. Meccaniche come tapping/timing, falling, swerving, merging, growing…




Questa strategia data-driven è adottata come modus operandi da tutte le publisher house: non a caso i publisher, grazie alla loro expertise con i numeri e con il marketing digitale, forniscono anche un prezioso coaching agli studi creativi che a loro si indirizzano per lanciare il gioco sul mercato, aiutandoli a implementare le meccaniche di gioco e le forme promozionali di maggior successo. Ciò spiega anche la somiglianza (per non dire quasi-identità) di molti titoli prodotti da studi e publisher diversi.


Sarebbe però errato tirare la conclusione della totale mancanza di originalità di queste produzioni: seguendo la dialettica virtuosa tra conservazione e innovazione tipica delle industrie culturali, nella produzione degli hyper-casual games c’è anche spazio per la creatività a basso rischio: le forme di gameplay collaudate vengono infatti riprese con alcune modifiche minime, ad esempio combinandole tra loro
Quando il business model diventa un genere
Se il gameplay è in qualche modo la forma dell’interattività, si può in un certo senso affermare che il game design costituisce il contenuto, la dimensione significativa, il senso del gioco. Ora, nel contesto di questa produzione in serie meticolosa e strategica, il design è la parte a cui viene data minor importanza—con ogni evidenza anche dal punto di vista del budget. Gioca un ruolo del tutto marginale nell’identità creativa, narrativa e di significato del gioco, e si ha quasi l’impressione che, data una certa forma di gameplay, ciò che gli viene costruito intorno sia quasi totalmente intercambiabile, come se forma e contenuto restassero del tutto slegate.
È quindi notevole ma non sorprende il fatto che questo funzionamento non sia affatto celato ma anzi rivendicato come cifra estetica di questi prodotti, come se l’aspetto propriamente grafico non fosse che un mero orpello che serve a dare un minimo di contesto visivo al movimento delle dita e alla gratificazione psicologica ottenibile tramite movimenti eseguiti correttamente. Il design è ridotto all’essenziale: per questo in tutti questi giochi i colori rivestono un ruolo fondamentale nella loro funzione di guida visiva del gameplay. La ricompensa visiva e gli effetti di stimolo e risposta diventano gli elementi portanti dell’esperienza di gioco
Si prendano ad esempio le dinamiche merging e growing, in cui l’obbiettivo è far crescere il proprio avatar (negli esempi sopra: una folla colorata e una voragine nel pavimento) spostandolo sullo schermo ed “assimilando” nemici o oggetti: esse esemplificano in maniera particolarmente evidente come il senso dei giochi che le implementano sia più da ricercare nel rapporto tra stimoli visivi e senso di gratificazione provato—nel breve arco (2 minuti) di durata della partita, fino alla prossima pubblicità, per ricominciare di nuovo al prossimo round—che non nell’esperienza stessa dell’interattività, che è di fatto ridotta ai minimi termini (si tratta in sostanza trascinare il proprio avatar a casaccio sullo schermo).
Se è vero che questi elementi di stimolo e risposta costituiscono in una certa misura la base di ogni videogioco, sembra allo stesso tempo lecito individuare come una peculiarità degli hyper-casual games il fatto che delle strategie di profittabilità si traducano in maniera così evidente in un’esperienza videoludica così connotata ed “essenzializzata” esteticamente.
A questo punto, sembra più chiaro come l’iniziale definizione business-oriented di questi prodotti accolga in sé elementi di complessità maggiore, nella misura in cui essa sottende un questionamento sulla relazione tra aspetti economici ed estetici, facendo così guadagnare legittimità alla domanda—questa sì, fondamentalmente estetica—circa il loro statuto di genere videoludico.