La rivolta contro gli dèi videoludici

Perché venerarli o temerli quando li puoi combattere?

Se coltivate fantasie di potere, come invitano a fare molti giochi, non ce n’è una più grande rispetto all’impersonare una divinità. Lo abbiamo fatto tutti svariate volte, ovviamente, soprattutto negli anni Novanta e nei primi Duemila, grazie a Peter Molyneux, che con titoli come Populous e Black & White ha posto le basi di questo genere videoludico. Sono giochi che ci hanno reso divinità invisibili, con il potere di spianare colline e dirigere civiltà con un gesto della mano, e di decidere se l’umanità debba in maggior misura amarci o temerci. Non era sempre facile, ma non c’era alcun dubbio su chi comandasse il mondo.

Come si fa a superare una simile fantasia di potere? La risposta dei giochi moderni è che gli dei non sono così grandi dopotutto, e che il vero potere sta nel rifiutarli, se non addirittura nel fare l’impossibile—ucciderli. Forse questo cambiamento riflette la nostra realtà attuale. Se gli anni Novanta erano un’epoca di ottimismo che ci prometteva la facoltà di poter determinare il nostro futuro individuale e collettivo, oggi viviamo una fase di maggiore incertezza, sentiamo che il nostro potere decisionale è limitato, e ci fidiamo poco dei nostri leader. Impersonare delle divinità appare meno invitante rispetto alla possibilità di rivoltarglisi contro per riprendere un po’ di controllo, anche senza sapere bene quali saranno le conseguenze.

Gods Will Fall dello studio Clever Beans è un esempio particolarmente lampante della ricerca del deicidio: un gruppo di guerrieri celtici viaggia verso l’Isola degli Dèi, entra attraverso dei portali nei regni di dieci tirannici signori, e tenta di distruggerli, uno alla volta. Il lead designer del gioco, Mark Wherrett, spiega che gli dèi del gioco non devono essere pensati come esseri onnipotenti. «Non rappresentano gli dèi classici, anche se provengono da quella mitologia», dice. «In realtà rappresentano le avversità».

Wherrett spiega che la filosofia dello stoicismo è un tema chiave del gioco: la forza di volontà, la resistenza e l’autocontrollo emergono sia attraverso i legami tra i guerrieri—le cui statistiche e relazioni sono influenzate dalle battute d’arresto, dalle vittorie, dalla paura e dalla determinazione—sia tramite il nostro impegno nei confronti delle sfide del gioco. «Mi piace pensare che, in una piccola misura, l’aver giocato alcuni titoli impegnativi, e l’aver imparato a migliorare fermandomi, pensando, e mettendo in discussione le mie azioni, mi abbia effettivamente aiutato anche nel mondo reale», dice Wherrett. «E mi piace l’idea che qualcuno possa davvero ottenere lo stesso risultato giocando a Gods Will Fall. Smettendo di ripetere ancora e ancora le stesse azioni e ripensando al proprio approccio».

Gods Will Fall (Clever Beans, 2021)

Il potere in Gods Will Fall viene quindi guadagnato lentamente, ed è fragile. Se tutti i personaggi vengono uccisi, c’è anche un severo “game over” che costringe a ripartire da zero, con l’impostazione della difficoltà di ogni livello rimescolata in modo casuale per la nuova partita. «Proprio all’inizio, mettiamo le cose in chiaro», dice Wherrett. «Diciamo: “Questo sarà impossibile, verrai battuto e distrutto”. E dato che tutto cambia ogni volta, non è mai possibile sapere esattamente quale sarà il percorso corretto». Ma la minaccia di un reset non sta là per puro amore della difficoltà, aggiunge, è progettata per spronare e alla fine ricompensare gli sforzi di chi gioca.

Non è una sorpresa che Wherrett citi Dark Souls come un’influenza, quando si tratta di strutturare una sfida gratificante. Se c’è una pietra di paragone che oggi domina la rappresentazione delle divinità nei videogiochi, è infatti la seminale serie di FromSoftware (insieme a una delle sue fonti di ispirazione, il manga Berserk di Kentaro Miura). Gli dèi nei giochi Dark Souls sono generalmente esseri pietosi, mero teatro tragico in un ciclo indifferente di fuoco e oscurità, destinati a svanire. Se chi gioca è all’altezza della sfida, può scegliere se eseguire gli ordini degli dèi o sostituirli, forgiando un nuovo—ma ugualmente transitorio—ordine.

Eldest Souls è un altro titolo dichiaratamente in debito con la formula di FromSoftware, e non solo in termini di sfida. Qui gli dèi sono stati imprigionati, ma sono comunque riusciti a scatenare ovunque una piaga chiamata “desolazione”, e un guerriero solitario si propone di eliminarli per sempre. Ma queste lotte tra umani e dèi sono un po’ più complesse rispetto a tale semplice premessa. «Sono un appassionato di storia», dice Jonathan Costantini, cofondatore di Fallen Flag Studios e designer del gioco. «Ad esempio amo la transizione degli antichi romani dalla repubblica a all’impero, e le rivoluzioni storiche come quella francese. Ho pensato che sarebbe stato molto bello raccontare una storia di proporzioni simili. Anche se sembra semplice, ci sono alcuni colpi di scena che lasciano intendere come il rapporto non sia sempre stato così conflittuale».

Costantini e il co-fondatore dello studio Francesco Barsotti (che è anche il programmatore di Eldest Souls) sono entrambi originari di Roma, e Barsotti crede che la storia dell’impero romano e del dominio papale—a volte benevolo, altre volte tirannico—possa aver dato forma all’ambigua rappresentazione del potere divino nel gioco. «Non tutti gli dèi nel nostro gioco sono necessariamente malvagi», dice. «Provano ancora gelosia o avidità o altri sentimenti normali, tipici degli umani. Hanno solo questo potere che ha permesso loro di restare al vertice della piramide per molto tempo».

Eldest Souls (Fallen Flag Studio, 2021)

Allo stesso tempo, l’umanità non ha esattamente prosperato senza gli dèi, il che—come accade oggi—porta le persone a cercare risposte in direzioni molto diverse. «Forse alcuni gruppi sperano di restituire il potere a uno degli dèi in gabbia», spiega Costantini, «e forse altri gruppi mirano a stabilire un nuovo ordine completamente diverso. Potrebbero anche esserci alcuni PNG che vogliono tornare a quando gli dèi governavano il mondo». C’è un senso generale di lotta, sconfitta e speranza che va oltre il rito e la religione. Non c’è un percorso corretto, spiega Costantini Costantini, solo fazioni con differenti motivazioni e credenze. Uccidere gli dèi può permettere loro di ottenere nuovo potere.

Gli essere umani non vogliono sempre uccidere i loro dèi, naturalmente. A volte cercano di diventare divinità o di assumere poteri simili a quelli degli dèi. Questa fantasia è stata tuttavia gradualmente scoraggiata nel corso degli anni, quelli che vanno da Gods, il titolo di Bitmap Brothers del 1991 in cui lo status divino è la ricompensa desiderata dell’eroe, fino alla saga di God of War, dove Kratos finisce per essere promosso al livello divino, che gli piaccia o no. Come dimostrano le epiche complicazioni dei giochi successivi, è un calice avvelenato che porta al tradimento e poi alla vendetta.

Se l’avvertimento non fosse sufficiente, Curse of the Dead Gods, un gioco di quest’anno, è ancora più chiaro su quali siano i lati negativi di una simile ambizione. Qui gli dèi si nascondono dietro le quinte, e un protagonista simile a un brizzolato Indiana Jones interagisce con loro attraverso altari, scambiando doni per oro o sangue, e avatar animaleschi agiscono come boss alla fine dei tre templi. È un gioco costruito sulla familiare base dei moderni roguelike, dove si esplorano templi pieni di tesori e pericoli.

Ma gli sviluppatori di Passtech trasformano i punti fermi del genere—saccheggio, potenziamenti permanenti e resurrezione—in una critica all’arroganza dell’eroe e ai suoi egoistici desideri. «Perché l’esploratore viene in questo tempio?», chiede il lead designer Adrien Crochet. «Il suo primo obiettivo è quello di saccheggiarlo. Non è lì con buone intenzioni». Uno degli indizi qui è la meccanica che premia con oro extra l’esecuzione di mostri in rapida successione. «Il gioco dice immediatamente ai giocatori che sono avidi nel farlo», dice Crochet, «e questo fa parte della filosofia del gioco, che vuole criticare l’aspetto più oscuro degli esseri umani».

Curse of the Dead Gods (Passtech Games, 2021)

Lungi dall’essere una critica al fanatismo religioso, Curse of the Dead Gods dirige il proprio sguardo sulla modernità. Ciascuno dei tre templi rappresenta una delle caratteristiche delle divinità—immortalità, onnipotenza e onniscenza—a cui la gente oggi aspira con effetti distruttivi. «Se sei fisicamente invincibile, il dolore svanisce e puoi infliggerne più facilmente», spiega Crochet. «Se hai ogni potere perdi empatia, perché consideri gli altri inferiori. Se puoi conoscere qualsiasi cosa, compreso il tuo futuro, finisci per impazzire». In effetti, si potrebbe finire con lo scoprire come molti dei mostri del gioco fossero umani, trasformati in esseri immortali al prezzo delle loro menti e delle loro anime. «L’unica cosa che ti rende umano è la mortalità», dice Crochet. «Essere divini vuol dire perdere la propria umanità».

È una questione di cui si occupa anche Paradise Killer di Kaizen Game Works, dove la classe dirigente del Sindacato, a cui è stata concessa l’immortalità da divinità aliene ormai dormienti, governa una cittadinanza schiavizzata costretta a faticare e a sacrificarsi per aiutare a risvegliare quegli esseri. Chiamato dall’esilio per indagare sull’omicidio del consiglio direttivo del Sindacato, il giocatore può rapidamente rendersi conto di quanto questi personaggi siano folli e assetati di sangue, al pari degli stessi dèi.

«Vediamo le divinità più come un riflesso dell’umanità che come entità superiori», dice il creative director Oli Clarke Smith. «Sono egoiste, crudeli, e ottuse nella loro brama di potere». Al tempo stesso, sono esseri surreali, che evocano un terrore profondo. «Era importante che fossero difficili da comprendere, in modo da avere mistero», dice. «Il giocatore dovrebbe vedere come la cieca devozione a demagoghi arroganti causi un danno enorme alla società». Anche se non era nel piano iniziale, la premessa si è prestata a una critica puntuale della politica moderna.

«Vivendo in Gran Bretagna, vediamo la corruzione della nostra classe dirigente e il costo che il capitalismo impone alla società», dice Clarke Smith. «Siamo anche diventati più consapevoli del prezzo del capitalismo in tutto il mondo, dato che sempre più voci si sono espresse attraverso mezzi non tradizionali». Attraverso le sue stravaganti divinità, Paradise Killer evidenzia come le ideologie più estreme o quelle che sono con ogni evidenza nuove forme di schiavitù e genocidio possano essere oramai normalizzate. «Abbiamo un governo che rovina attivamente la vita delle nuove generazioni con la scusa dei valori inglesi tradizionali. È un po’ come quel tweet sul partito dei leopardi, divenuto poi un meme, ed è vero pure per le divinità di Paradise Killer».

Un articolo apparso su
Wireframe #55
Tradotto da
Gilles Nicoli
Data della pubblicazione originale
7 ottobre 2021
In modi diversi, quindi, tutti questi giochi trasmettono un messaggio simile—che le persone dovrebbero usare la forza della tenacia, del giudizio critico e persino della propria mortalità, invece di aspirare a un ideale divino. Questo può essere tanto spaventoso quanto liberatorio—basta chiedere a Friedrich Nietzsche. Il suo famoso proclama “Dio è morto” domandava se un’umanità post-illuminista potesse far fronte all’assenza di certezze morali.

Uccidere Dio ci lascia a fissare l’abisso di un’esistenza senza senso e di un nichilismo paralizzante (un concetto incarnato in Dark Souls 3, dove, mentre l’era degli dèi svanisce, i personaggi predestinati perdono ogni motivazione nell’adempiere al ruolo loro prescritto). Per Nietzsche la sfida per l’umanità era affrontare questa realtà, definire alcuni valori morali a prescindere e assumersi la responsabilità per essi; e tutti questi giochi in cui ci si rivolta contro gli dèi riguardano questo compito.

La trama di Eldest Souls può andare in varie direzioni, ad esempio, alcune più ricche di speranza rispetto ad altre. «Sei stato mandato a uccidere tutti gli dèi», dice Barsotti, «ma sei un po’ insicuro, così come lo è il popolo, su come le cose andranno a finire. Non sai se questo migliorerà la situazione». È una lotta dura e senza un esito garantito, solo una variegata gamma di possibilità. La stoica impresa di Gods Will Fall, perciò, ci incoraggia ad andare fino in fondo con la sola forza della nostra determinazione, e quando il gioco finisce le tribù celtiche hanno un nuovo mondo da far nascere, magari a partire proprio dal senso di coesione maturato nel corso della vicenda.

Curse of the Dead Gods, invece, ci mostra quanto sia pericoloso fissarsi sul benessere, l’immortalità e il controllo sul futuro—e suggerisce che abbia un maggiore potere empatico l’abbracciare la vulnerabilità umana, e persino la morte stessa. In Paradise Killer non possiamo distruggere le divinità, o la società squilibrata del Sindacato, ma il processo alla fine del gioco ci permette almeno di giustiziare alcuni dei suoi membri. Mettere brevemente in atto un controllo assoluto è la cosa che più somiglia a una tradizionale fantasia di potere, e forse abbiamo bisogno di provare anche quel tipo di sensazione. «Personalmente penso che ci sia un po’ di ottimismo nel climax del gioco», dice Clarke Smith. «Possiamo sparare in faccia alle divinità egoiste che distruggono le nostre vite. Non è male!».