Andare avanti: le tre morti di Senua

Ma cosa vuol dire andare avanti?

“I know you can see / things that we can’t see”

Arcade Fire, Awful sound (Oh Eurydice)

Tre volte muore Senua. La prima, rimossa e dimenticata, quando assiste al brutale assassinio di sua madre. La seconda, che riattiva la psicosi e la prima morte, quando trova il cadavere dell’amato Dillion smembrato e impalato dai vichinghi. La terza, al cospetto di Hela, è una morte puramente simbolica, che accade solo nella mente della giovane guerriera. È però quella decisiva, perché riassume le altre e riporta in vita Senua: una vita in cui è finalmente possibile convivere con le voci, le visioni e i deliri che la ragazza ha ereditato dalla madre Galena.

Oggi una cartella clinica potrebbe forse chiarire se i disturbi di Senua siano ereditari o meno, o forse potrebbe stabilire quanto abbia influito il contesto sociale sullo stato di salute mentale di Senua; in particolare qual è stato il peso del ruolo giocato dal padre-padrone Zynbel in tutta la vicenda. Magari un medico potrebbe addirittura prescrivere una terapia farmacologica per fermare le voci che abbiamo sentito nella mente di Senua, un coro cui ci è stato chiesto di unirci come giocatori (ma non è sempre così, in un videogioco?, non siamo voci che finiscono col possedere e guidare un certo personaggio giocabile per un certo numero di ore?).

Quel che è certo è che a qualche anno dalla sua uscita, Hellblade: Senua’s sacrifice avrà un sequel; possiamo quindi concludere che in qualche modo Senua è davvero andata avanti. Ma cosa significa andare avanti, nel suo caso? È davvero possibile una vita anche solo accettabile dopo anni di segregazione, lutti, psicosi, visioni, deliri, voci che ti dicono di proseguire, anzi no di fermarti, insieme umiliandoti e incoraggiandoti e portandoti continuamente sul baratro e poi fuori?

Tempo fa ho lavorato in un centro giovanile, dove seguivo e coordinavo diversi progetti. Tra questi, un corso di pizzica e taranta e un percorso di formazione alberghiera per ragazze e ragazzi con disabilità psichica. Ogni tanto, quando non avevo altre incombenze da sbrigare in ufficio, me ne stavo in aula a seguire le lezioni. Un pomeriggio ero seduto a seguire quella di pizzica e taranta. Di solito, prima di passare alle prove col tamburello e alla danza, il maestro mostrava alcuni filmati d’epoca e raccontava vecchie storie di tarantate. Feci caso alla lavagna, che il maestro non utilizzava e che era lì dal giorno prima, quando c’era stata l’ultima lezione del percorso formativo per disabili.

Guardavo le immagini in bianco e nero di donne che correvano impazzite o si contorcevano per terra all’interno di un cerchio formato da famigliari e compaesani, e nel frattempo nella penombra dell’aula scorrevo gli appunti lasciati sulla lavagna: panico, ansia, agitazione, dipendenza, tremore, ossessione… Qualcuno, immagino sempre il formatore, aveva trascritto più in basso anche i nomi dei farmaci che assumevano alcuni di quei ragazzi e di quelle ragazze.

Fu facile, quasi scontato, pensare che c’era una connessione tra le immagini delle vecchie tarantate e l’elenco sulla lavagna, anche se non sapevo di che natura. All’epoca ero molto legato a una persona con bipolarismo, e anche per questo ero molto interessato alla cosiddetta disabilità psichica. Quando non ero tentato di chiamare il suo medico per raccontargli come stavano davvero le cose (ma come stavano?), mi capitava di cercare risposte nella mitologia greca un po’ come in Senua con quella norrena e celtica, pensando talvolta che se è vero che gli dèi sono spariti per diventare malattie, forse andrebbe ammesso che sono anche tornati, ma sotto forma di farmaci. D’altra parte c’erano anche delle cose accadute a me, in passato, che non riuscivo a mettere a fuoco. Voci che tuttora mi sembra di ascoltare, specie al mattino, appena sveglio, e che ho solo imparato a lasciar andare, a lasciar sfogare prima che inizi la mia giornata vera e propria, quella in cui sono percepito come una persona normale e rispettabile a tutti gli effetti.

Ho giocato Senua due volte di fila, la seconda terminandolo a notte fonda. L’ho fatto sicuramente per rivivere il bellissimo scontro finale, in cui con Senua combattiamo i fantasmi norreni fino allo sfinimento, fino a quando le voci non sussurrano di lasciarci andare alla morte e comprendiamo che dobbiamo perdere quell’ultima battaglia infinita e lasciarci massacrare perché l’inferno mentale di Senua abbia fine, in un modo o nell’altro.

Ho trovato questo espediente ludico una rappresentazione particolarmente riuscita di ciò che è l’ossessione, dell’incapacità di fermarsi anche quando una parte di noi è consapevole che una certa azione reiterata all’infinito—la ricorsività dell’atto e delle abitudini ossessivo-compulsive—non fa che danneggiarci. Ma c’era anche qualcosa che non mi tornava, dopo lo scontro, e l’ho capito solo la seconda volta che sono arrivato ai titoli di coda.

Hellblade: Senua’s Sacrifice (Fonte: screenshot)

Il fatto è che conosco pochissime persone che siano davvero andate avanti dopo una vita di psicosi, spersonalizzazione, depressione o altre infermità mentali, e alla luce di questa mia esperienza il finale di Senua potrebbe suonare un po’ consolatorio. Un po’ per la tiritera sul conservare sguardo e curiosità da bambino portata avanti dalle voci nella testa di Senua in quegli ultimi minuti—tiritera che poteva semplicemente essere tagliata, e non sarebbe cambiato nulla; un po’ perché forse non riesco proprio ad accettare il fatto che a differenza di Senua le persone che ho conosciuto non solo non abbiano visto riconosciuta la possibilità di essere accettate per il loro sguardo diverso sulla realtà, ma sostanzialmente siano rimaste indietro—espressione terribile, come del resto lo è, appunto, “andare avanti”.

Ma “andare avanti” è l’espressione più appropriata quando si parla di storie, specie in un videogioco. Giochiamo per sapere cosa c’è dopo, dopo quel boss, quel livello, quella porta chiusa, e per questo ci soffoca l’idea di restare bloccati per ore o addirittura giorni in un’area o alle prese con uno scontro particolarmente difficile. Andare avanti è tutto ciò che conta, perché è altra vita, vita su vita, per quanto digitale, che non pensavamo di poter esplorare.

La cosa più dolorosa che può accadere è scoprire che dopo non c’è niente, come quando mi è capitato di entrare nel nuovo appartamento di una persona in cura per schizofrenia—ehi, è andata avanti!, ho pensato—e scoprire che non c’era niente, tutto pulito e lindo e terribilmente vuoto, senza quadri né mobili né posate né bicchieri né niente a parte un letto perfettamente composto come se non ci dormisse nessuno, nemmeno un amante occasionale, perché era l’appartamento di una persona che nonostante l’adesione puramente formale a un programma di riabilitazione continuava a testimoniare, con coerenza e incrollabile ostinazione, una a suo modo purissima forma di non esistenza.

Andare avanti, anche a costo di scoprire che dopo non c’è nulla o qualcosa di diverso da quello che ci aspettavamo, perché l’andare avanti anche solo rotolando per inerzia crea nuove storie, e le storie, la capacità mitopoietica o anche solo divulgativa, sono tutto—lo sapevano bene proprio i norreni, per cui erano motivo di vanto tanto le imprese famigliari quanto le saghe con cui quelle imprese sarebbero state tramandate. Perché se non c’è una storia, se manca la parola, allora c’è davvero l’oscurità, quella di Senua di origine insieme superstiziosa e chimica quanto quella di una persona depressa oggi, su cui taciamo perché a nostra volta non abbiamo le parole per dirla. Non è un caso che proprio su questo punto si apra e si chiuda la storia di Senua, non è un caso che persino le voci nella sua testa temano più di ogni altra cosa la possibilità di essere zittite una volta approdate a Hel.

All’inizio del gioco ci viene raccontato che la storia di Senua è una storia ultima, perché è già finita e dopo non ce ne saranno altre. A sostenerlo è la voce principale nella testa della giovane guerriera, quella che sentiremo per la maggior parte del tempo nella cuffia di sinistra, e che fa da commento narrativo a tutta la storia configurandosi al contempo come un’intelligente versione acustica di una classica interfaccia videoludica.

Ma quella stessa voce, alla fine, ci dirà invece che ci saranno altre storie, e che potremo unirci a Senua nel viverle. Del resto tutto il viaggio orfico e dantesco di Senua è costellato di storie: quelle su Odino, Loki, Baldur e altri miti norreni raccontate da Druth come pure la rielaborazione degli eventi tragici del passato della stessa Senua. Anzi, assumendo che tutto il pellegrinaggio di Senua avvenga nella sua mente, possiamo dire che l’intero gioco è un percorso di autoterapia in cui la ragazza riesce, con l’elaborazione e la rielaborazione di ricordi più o meno sopiti o rimossi, a dare forma a una sua propria storia finalmente compiuta, sbrogliando la matassa dei traumi e riapprodando così a sé stessa.

Senua non deve salvare l’amato Dillion che credette in lei, ma sé stessa attraverso il ricordo dell’amato Dillion che credette in lei. E se riesce a farlo è perché evidentemente c’è ancora qualcosa di vivo nella sua testa, qualcosa che si nutre anche delle visioni e delle allucinazioni visive e uditive di cui quella mente è stata a lungo ostaggio. Dunque, in barba a quello che posso pensarne io, avevano ragione tanto Dillion che Galena e quella voce interiore di Senua nel sostenere che uno sguardo altro sulla realtà non è una maledizione, e che al contrario va visto come un dono, o quantomeno come una componente essenziale e non scindibile di ciò che è una persona.

È stato dopo aver visitato quell’appartamento vuoto che ho detto basta, non sono all’altezza. È stato quando ho parlato al telefono con il medico, chiedendo un incontro, e lui per tutta risposta mi ha intimato di qualificarmi, perché non sapeva neppure della mia esistenza, che mi sono detto: non salverò questa persona, al massimo ci resterò secco io. È stato allora che ho ascoltato una delle mie voci interiori per una volta assolvermi suggerendo che potevo lasciar andare, che non c’era niente di male nel fallire. È stato quando ho stabilito una connessione, di non so quale genere, tra le donne tarantate che si contorcevano in quei vecchi filmati d’epoca e l’elenco di disturbi e farmaci iscritto come un’antica sequenza di rune su una lavagna di plastica bianca che ho concluso che non c’è modo, oggi, di dire determinate cose senza suonare ridicoli, superficiali, retorici o ipocritamente preoccupati per gli altri, che non abbiamo una parola socialmente accettabile per il celtico “gelt”, colui o colei che va a cercarsi nei boschi perché qui tra noi non può funzionare.

In fondo, cosa mi aspettavo dal finale del gioco? Che Senua tornasse chiusa dentro di sé, nella sua oscurità, rivivendo all’infinito le due morti precedenti e tutti gli eventi traumatici della sua vita? Che il suo viaggio fosse reale, e che quindi finisse con una morte altrettanto reale? Tutti i viaggi sotterranei si concludono con la perdita di Euridice, e nella migliore delle ipotesi con la capacità di scendere a patti con quella perdita, con l’impossibilità di salvare davvero le persone che amiamo, soprattutto da sé stesse. Forse Senua è più avanti di me in questo viaggio, forse no, forse mi aspettavo che Senua non sopravvivesse al senso di colpa per aver salvato sé stessa ma non Dillion, o addirittura di essere sopravvissuta a sé grazie alla morte di Dillion. E invece il punto, forse, è proprio questo. Che si sopravvive, si va avanti, e il senso di colpa non serve a niente: tante volte uno nutre la speranza di essere Dillion, amore di pura luce che salva e libera, e invece era Senua, e prima di tutto doveva fare i conti con sé stesso, con la propria selvaggia oscurità.