Attraverso il West

Il paesaggio americano dalla pittura alla in-game photography.

L’Ottocento è il secolo segnato dalla grande espansione territoriale e dall’ascesa economica della giovane repubblica americana, costruita intorno all’idea di natura rigeneratrice; il rapido processo di espansione, realizzato in poco più di mezzo secolo, nasce dall’ideologia di compimento del “Destino Manifesto”. Tale pensiero si definisce come la presupposta ineluttabilità della progressiva espansione territoriale degli Stati Uniti verso Ovest. Il primo a impiegare questo termine è John O’Sullivan, editore del The United States Magazine and Democratic Review nel luglio 1845: egli definisce “Destino Manifesto” il diritto americano “di diffonderci e impossessarci di tutto il continente che la Provvidenza ci ha donato, al fine di valorizzare la grande esperienza di libertà e autogoverno che ci è stata affidata”. L’atteggiamento che si nasconde dietro all’ideologia del “Destino Manifesto” è stato a lungo parte dell’esperienza culturale americana. È in questo contesto socio-culturale che, a partire dal 1830 circa, la pittura di paesaggio diviene la forma d’arte preminente negli Stati Uniti. Inizialmente, la natura selvaggia è rappresentata secondo due modalità: da un lato c’è un ideale pastorale, modello idilliaco entro cui collocare il mito del buon pastore ritiratosi nel Nuovo Mondo; dall’altro c’è una visione legata alla progressiva conquista meccanica del territorio.

Gli artisti che si dedicano alla rappresentazione di paesaggio svolgono un ruolo decisivo nella costruzione e nella diffusione della retorica nazionalista, mostrando al popolo americano quei luoghi della natura che rivelano il “Destino Manifesto” della nazione e che non tutti avevano il privilegio di poter raggiungere. Emblematica è la pratica di Thomas Cole, uno dei più significativi artisti della tradizione paesaggistica americana. Fra il 1832 e il 1836, produce The Course of Empire, allegoria dell’America sotto forma di cinque quadri: il vasto ambiente incolto, le nuvole in movimento, l’atmosfera cupa, segno di un pericolo incombente, tutti questi elementi rappresentano l’alba della civiltà e rievocano un tempo in cui gli uomini erano tenuti insieme dall’aiuto che essi si fornivano reciprocamente. L’opera di Asher B. Durand Progress (1853) vede accanto alla natura selvaggia la comparsa della marcia verso il progresso: strade, trasporti e produttività agraria si uniscono alla ferrovia e alla città industriale sullo sfondo, emblemi del futuro americano. La macchina come oggetto concreto e come metafora fondamentale dell’essere diviene presto emblema della forza e della personalità della nazione. Le grandi esplorazioni dell’Ovest contribuiscono alla diffusione dell’immagine dei territori oltre la frontiera; l’artista diventa esploratore e le prove di eroismo che deve affrontare durante i viaggi carichi di difficoltà e ostacoli divengono una sorta di iniziazione all’arte.

Il cittadino americano che assiste alle mostre sull’arte paesaggistica della nascente nazione compie un viaggio virtuale per mezzo dello sguardo; i dipinti riportano il ricco spettatore urbano alla purezza originaria della natura senza bisogno di recarvisi realmente. Asher B. Durand enfatizza la verginità della natura selvaggia, il suo paesaggio è uno spettacolo incontaminato pervaso da un senso di rivelazione spirituale. Durand è un accanito sostenitore dell’autentico, studioso di geologia e attento osservatore del dettaglio botanico e geologico. I cosiddetti “studi del vero” di Durand danno un particolare indirizzo alla pittura di paesaggio americana; l’artista spiega che “una buona immagine ti possiede, ti trascina dentro di essa, ne respiri l’atmosfera, senza pensare alla composizione o all’esecuzione”.

Red Dead Redemption (Credits: James Pollock, Virtual Geographic)

Nel periodo di grande espansione americana la pittura non è l’unica arte che permette il viaggio virtuale dello spettatore attraverso il West; le nuove tecniche di rappresentazione ed esposizione messe a punto parallelamente alla nascita dell’ottica fisiologica si diffondono rapidamente, in quanto forma di intrattenimento popolare. Tra queste vi è la fotografia. La documentazione fotografica è stata essenziale all’espansione territoriale americana, poiché per conquistare la natura selvaggia non è stato sufficiente comprenderne il valore provvidenziale: il territorio sconosciuto richiedeva misurazione e rappresentazione in forma cartografica e fotografica. Uno dei primi ad occuparsi di fotografia oltre la frontiera è Timothy O’Sullivan. Le sue opere sono caratterizzate da una serie di elementi iconografici e stilistici emblematici: la presenza costante di una barca sulla battigia, metafora del viaggio interiore nel paesaggio; un uomo in contemplazione della scena che, volgendo le spalle allo spettatore, ne assume lo sguardo; la luce, il cui immobile e abbagliante chiarore non proviene da un’unica fonte ma sembra irradiarsi dagli oggetti. A partire da queste immagini lo sguardo dello spettatore può assimilarsi all’attività esplorativa, che viene presentata come attività essenzialmente visiva; ritorna il concetto di viaggio virtuale in cui le fotografie indicano lo svolgimento spazio-temporale della visione, il percorso dello sguardo.

L’approccio fotografico al mondo è diventato il mezzo principale con cui oggi gli individui interagiscono con i dati culturali; la caratteristica della percezione nata dall’inquadramento rettangolare della realtà rappresentata, sviluppatosi originariamente con la pittura, seguita dalla fotografia e poi dal cinema, si è evoluta negli schermi del mondo digitale. Questo rende il programmatore di un mondo virtuale insieme architetto, fotografo e regista cinematografico; la macchina da presa virtuale diventa un’interfaccia che collega tutti i media; controllata dall’utente, si identifica con il suo punto di vista così da creare un’esperienza soggettiva. La realtà virtuale stabilisce un nuovo tipo di relazione tra il corpo e l’immagine; lo spettatore non è più immobilizzato, deve agire e interagire per poter vedere. All’interno del videoludico, i giocatori—in quanto esploratori virtuali—scattano foto per commemorare i loro viaggi, ottenere una documentazione visiva di esperienze piacevoli e mostrare prova di queste ad amici e familiari; le realtà virtuali stanno rapidamente diventando legittime quanto il mondo corporeo come siti per il voyeurismo fotografico.

Gli stessi videogiochi che legittimano e incentivano tale attività esplorativa si rifanno alle opere pittoriche e fotografiche di coloro che hanno realmente esplorato e documentato i luoghi riprodotti digitalmente. Red Dead Redemption II, videogioco appartenente al genere open-world a tema western chiaramente ispirato a un particolare periodo della storia dell’arte, esibisce un mondo oggetto di esplorazione da parte di giocatori e artisti. James Pollock, virtual photographer inglese, condivide la sua pratica sul suo blog Virtual Geographic. Le sue immagini in bianco e nero dei deserti e della natura selvaggia di Red Dead Redemption rievocano la pratica di Ansel Adams e i classici della fotografia naturalistica. Pollock non vede alcuna differenza dalla fotografia reale: “trattare le realtà virtuali come se fossero reali è una delle cose che rende la in-game photography un’esperienza interessante”. La in-game photography possiede anche altri fini oltre quelli artistici: celebra la qualità grafica di un prodotto, fornendo informazioni utili a potenziali acquirenti, espande la portata di un gioco grazie alla condivisione, diretta o indiretta, delle fotografie dei mondi virtuali. La in-game photography è, in sostanza, un’espressione della cultura videoludica.

Red Dead Redemption (Credits: James Pollock, Virtual Geographic)

Negli ultimi anni la diffusione di videogiochi di genere open-world che presentano ambienti naturali o paesaggi ampi e realistici è aumentata significativamente, in termini di budget, portata e dimensioni dei team di sviluppo—come attestano le serie di Red Dead Redemption, The Elder Scrolls, Grand Theft Auto e Fallout; ne consegue che fotografi talentuosi hanno avuto modo di esplorare e catturare il meglio che hanno incontrato di questi mondi digitali. La mostra Rare Earth celebra il progetto fotografico dell’artista americano Mark Tribe. Per questo evento, Tribe ha prodotto fotografie naturalistiche individuate all’interno di videogiochi. I paesaggi appaiono realistici, ma un attento esame rivela che sono in realtà simulazioni generate al computer. In Rare Earth, Tribe attira l’attenzione dello spettatore su una nuova forma di rappresentazione del paesaggio che collega la cultura digitale e la storia dell’arte. Allo stesso modo, i paesaggi raffigurati nell’opera Road Trips di Justin Berry somigliano alla natura vista attraverso gli occhi dei maestri classici della storia dell’arte. Berry scandaglia i videogiochi alla ricerca dell’apparato scenico nascosto dietro al videogioco: le sue immagini fotorealistiche emergono come un collage dei molteplici dettagli che cattura. Le uniche differenze tra i singoli frame sono i luoghi in cui sono stati scattati, le strade percorse per individuarli e le lenti attraverso cui l’artista li ha catturati. Affiancando queste fotografie, Berry esplora ciò che le attira e ciò che le distingue.

I lavori di questi artisti provano come i paesaggi videoludici—definiti “sfondi di cartone”—siano diventati mondi apparentemente illimitati. Progettati per sedurre il giocatore e invitarlo a esplorare paesaggi incontaminati, contengono lussureggianti foreste pluviali, catene montuose ghiacciate, cascate impetuose e deserti aridi. Nell’opera Lost Worlds di Rob Wetzer lo spettatore è invitato ad avventurarsi in un viaggio virtuale alla scoperta di territori incorrotti; questi paesaggi creati dall’uomo mostrano l’immaginario collettivo della natura incontaminata. L’immagine paesaggistica ideale che ha influenzato l’idea di una regione selvaggia organizzata, è anche definita “mondo perduto”, immagine che sembra essere completamente svincolata da qualsiasi esperienza fisica.

La in-game photography presenta quindi un paradosso: le fotografie dei mondi virtuali celebrano spazi aperti, ma la loro produzione richiede luoghi chiusi. La documentazione della dimensione pubblica—strade, campi, cieli—è creata in un contesto privato. La in-game photography cambia il modo di vedere il videogioco, ridefinendo i caratteri della realtà virtuale, per cui l’attività videoludica non è fine a se stessa, ma finalizzata alla sua documentazione fotografica, alla sua corroborazione iconografica. Le fotografie di vasti luoghi lontani propongono paradigmi di bellezza: al pari del cinema e della pubblicità—e prima ancora della pittura paesaggistica—forniscono modelli e standard, a riprova che la realtà virtuale è assunta a pietra di paragone del reale. Dai dipinti alla fotografia, dal cinema ai videogiochi, l’immagine dell’Ovest è diventata la cosa più conosciuta dagli americani e un gioco come Red Dead Redemption 2 non può evitare di raccontare la storia che il mondo oltre la frontiera lascia ancora nella coscienza pubblica, una storia che è stata dettata in parte dalla rappresentazione del “Destino Manifesto”. Quando pensiamo all’Ovest americano, ai luoghi oltre la frontiera, attraverso il West, questo è, ancora oggi, ciò che immaginiamo.

Riferimenti

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