Nel 1997 per la prima volta un gioco—Dungeon Keeper—mi mostrava come ci si sentisse a stare dalla parte dei mostri: benissimo. Il livello di soddisfazione, divertimento, godimento di quel titolo ormai classico era tale da risultare persino sospetto. Qual era il suo segreto?
Una risposta l’ho trovata solo un anno fa nelle pagine di Capitalismo e Candy Crush (Nero Editions, 2019, traduzione di Matteo Bittanti), nel quale l’autore, Alfie Bown, analizza i meccanismi di rivalsa attivati da un gioco come Football Manager, in cui il giocatore può applicare la sua passione e la sua competenza calcistica in un ambiente lavorativo fedelmente ricostruito, con tanto di possibilità di fare carriera, confrontarsi con la dirigenza sugli obiettivi da perseguire e raggiungere traguardi sempre più prestigiosi—ovvero tutto ciò che verosimilmente non gli capiterà mai di fare nella sua reale vita lavorativa.
Il giocatore insomma si vendicherebbe dei torti reali—o solamente percepiti—che ha subito sul lavoro grazie ai trionfi conseguiti nel mondo sportivo virtuale di Football Manager. Da qui la sensazione di aver perso del tempo nel caso di una sconfitta, perché il videogioco a quel punto non sarebbe servito allo scopo, mentre altrettante ore spese per raggiungere un trofeo vengono considerate, pur con qualche senso di colpa, ben impiegate. Secondo Alfie Bown:
Football Manager instilla in noi il desiderio di «fare carriera» sulla base di quanto prescrive la logica capitalistica. Dopo esserci autorimproverati per aver giocato – sottraendo tempo prezioso ad attività più produttive – facciamo ritorno al lavoro non solo senza aver affrontato la nostra insoddisfazione, ma dopo aver rinnovato la totale adesione ai principi e alle priorità del capitalismo.
Mi sono fatto l’idea che Dungeon Keeper fosse capace di mettere in moto il medesimo meccanismo, circoscritto però all’interno della stessa esperienza videoludica. Se i mostri nei videogiochi sono destinati ad avere la meglio—perché il numero di game over è sempre maggiore delle run concluse con una vittoria—allora la rivalsa sta nel potersi trovare, per una volta, dalla loro parte. In ogni eroe caduto per mano della nostra squadra di mostri riconosciamo quindi con soddisfazione il nostro Mario che non è riuscito a salvare la principessa, e innumerevoli altri protagonisti che non siamo riusciti a condurre fino alla fine della loro avventura: insomma, è come se fosse il giocatore a poter infliggere un game over al gioco.
I titoli che seguono questa impostazione sono sorprendentemente pochi: vale la pena citare due cloni di Dungeon Keeper come Dungeons e War for the Overworld, solo parzialmente in grado di alleviare la nostalgia per il capolavoro di Bullfrog; poi Dungeon Warfare, in cui abbiamo a disposizione poche unità ma moltissime trappole, perché si tratta di un tower defense—uno tra i miei preferiti di sempre; infine promette bene Legend of Keepers, che è praticamente un Darkest Dungeon capovolto.
Tutti questi giochi hanno in comune come minimo due elementi. Per prima cosa richiedono un certo livello di pianificazione: l’arrivo dei nemici è un evento posposto nel tempo, e il giocatore deve predisporre ogni cosa per farsi trovare pronto quando arriverà il momento di affrontarli. C’è una componente implicitamente narrativa in tale schema, dal potente effetto immaginifico, perché ci troviamo come a osservare un “dietro le quinte” di tante altre esperienze videoludiche vissute in passato: i preparativi di cui ci occupiamo in vista dello scontro con gli eroi li possiamo pensare come quelli che nei vari capitoli di The Legend of Zelda precedono il momento in cui Link, cioè il giocatore, fa il suo ingresso nel dungeon, e se il nostro piano funziona ciò contribuisce molto al meccanismo di rivalsa appena descritto.
Un secondo elemento in comune a tutti quei titoli è l’ambientazione fantasy. Per chi preferisse invece horror e sci-fi arriva Carrion, sviluppato da Phobia Game Studio e pubblicato da Devolver Digital, che ci mette nei panni di un’orrifica e tentacolare creatura che si aggira in alcuni laboratori di ricerca militarizzati. La forza dell’idea sta ancora una volta nel proporre uno scenario davvero familiare e nel ribaltare la prospettiva, rinnovandolo.
La familiarità è evidentemente legata alla memoria di svariati b-movie di fantascienza, oltre che degli spiacevoli incontri videoludici con tante creature terrificanti, dallo Xenomorfo di Alien: Isolation al Nightmare di Prey—e qui l’effetto rivalsa appare davvero motivato, perché quelli erano nemici praticamente invincibili, e il gameplay invitava principalmente a evitarli. Carrion sotto questo aspetto fa un ottimo lavoro, riuscendo perfettamente nell’impresa non banale di trasmettere al giocatore la sensazione di essere overpowered senza per questo abbassare eccessivamente il livello di sfida.
La novità invece sta proprio nello stare dalla parte dei mostri in uno scenario sci-fi e non fantasy. Anche qui Carrion dimostra molte qualità nella rappresentazione di una creatura amorfa, a partire da una fisica convincente tanto nei movimenti quanto nell’utilizzo dei tentacoli per afferrare oggetti, smembrare corpi, sbatacchiare qualsiasi cosa contro pareti, pavimentazioni, soffitti. La pixel-art poi porta tutto ciò sullo schermo in maniera splatter ma comunque stilizzata, e anche il comparto audio fa il suo dovere, con i suoni orripilanti della creatura e le urla di terrore delle sue vittime.
Eppure l’esperienza di gioco è meno soddisfacente di quanto possa a prima vista sembrare, perché gran parte del divertimento starebbe nel poter pensare e agire come un mostro, mentre il gameplay è quello di un metroidvania piuttosto tradizionale. Come acutamente nota in sede di recensione Graham Smith, caporedattore di Rock Paper Shotgun, «nei film i mostri mantengono il loro alone di mistero facendo la loro apparizione solo per il tempo strettamente necessario a terrorizzare i protagonisti, prima di ritirarsi di nuovo nell’oscurità. Carrion suggerisce che l’attività in cui sono impegnati i mostri quando non sono sullo schermo sia azionare leve. Oppure cercare di capire come farlo».
Ci troviamo dunque di fronte a un game design un po’ pigro, che come abbiamo visto applica molto bene il tema del gioco alla grafica e al sonoro, ma si dimentica completamente di legarlo al gameplay. L’impressione di avere accesso a un “dietro le quinte” è completamente rovinata, e anche l’effetto rivalsa ne esce un po’ ridimensionato. È davvero un peccato, perché anche alcune trovate molto indovinate, come i nuovi poteri sempre più gustosi che il nostro mostro acquisisce nel corso del gioco, o la necessità di modificare la propria massa per cambiare le abilità in uso, finiscono con l’essere sempre funzionali a una progressione molto lineare e instradata verso l’obiettivo di sbloccare porte chiuse per garantirsi l’accesso a nuove aree.
Carrion resta comunque un titolo solido e divertente, che trova nelle sei ore circa necessarie a portarlo a termine la sua durata ideale. A mancare è solo quel guizzo, quell’invenzione che, in aderenza al tema del gioco, avrebbe potuto meglio calare il giocatore nei panni di un mostro spaventoso—e trasformare una buonissima opera in un’esperienza indimenticabile.