Contro il videogioco

L’immaginario del videogame è dominato da due ideologie: il criptofascismo e il neoliberismo.

Quello che segue è un mash-up dell’introduzione di Game Over. Critica della ragione videoludica (a cura di Matteo Bittanti, Mimesis Edizioni, 2020), che affonta gli aspetti più controversi—ma paradossalmente meno discussi—della cultura videoludica contemporanea, tra cui le politiche identitarie dei gamer, il tribalismo dei fanboy, le tattiche dei troll, i fenomeni di razzismo, sessismo e omofobia nelle sessioni multiplayer, gli effetti collaterali della ludicizzazione, la campagna GamerGate e la mercificazione del gioco nel contesto delle pratiche di streaming, attraverso i contributi di studiosi internazionali che si collocano all’intersezione tra game studies, cultural studies, antropologia e sociologia dei consumi. La tesi portante è che l’immaginario del videogame è dominato da due ideologie complementari e parimenti tossiche: il criptofascismo e il neoliberismo. Il volume si avvale di contributi di Matteo Bittanti, Andrea Braithwaite, Kurt Borchard, Claudio Cugliandro, Suzanne de Castell, Daniel Dooghan, Peter Frase, Jonathan Glover, Daniel Harley, Renyi Hong, Jennifer Jenson, Sarah Mason, Torill Elvira Mortensen, Soraya Murray, Ulysses Pascal, Gregory Perreault, Michael Salter e Tim Vos.

Game over

Il videogioco è, al tempo stesso, un rimedio contro la depressione e una delle sue principali cause. Alla luce della situazione contingente segnata dal collasso socio-ambientale, dall’acuirsi delle diseguaglianze economiche, dall’ascesa di regimi criptofascisti da un lato e dalla persistenza di logiche neoliberiste dall’altro, il videogioco offre, a soggetti marginalizzati, in forma puramente fittizia, autonomia e autorità. Lo spleen diffuso—quella mistura di disperazione e disillusione che forma l’humus del ventunesimo secolo—spiega il successo crescente dell’esodo progressivo nel ludus digitale, quell’iperluogo nel quale il soggetto può esercitare forme (limitate, predefinite, codificate) di agency. Una pseudo-soluzione a una gamma di istanze che appaiono insormontabili, insolubili, ineluttabili. Un’alternativa alle iniquità di un quotidiano sempre più mortificante. Alle violenze ambientali istituzionalizzate. Alla crescente repressione dei diritti civili. In breve, il videogioco è il tuo premio di consolazione: Amalo e rispettalo.

Un estratto dal libro
Game Over
A cura di
Matteo Bittanti
Editore
Mimesis
Anno
2020
I videogiochi sono indissolubilmente legati ai disturbi mentali. Sono, al tempo stesso, Prozac e Adderall, OxyContin e amfetamine, upper e oppiaceo, rimedio e concausa. Il videogioco è tradizionalmente associato alla sociopatia, alla psicopatia, alla rabbia omicida, al risentimento del misantropo che si traduce in violenza brutale, come nel caso degli adolescenti che falciano i compagni nelle scuole a colpi di mitra acquistati nel superstore a prezzo scontato o massacrano le nemesi percepite (donne, ebrei, musulmani) nei luoghi di culto religioso (sinagoghe, moschee) e pagano (centri commerciali) mentre trasmettono in diretta l’impresa su Twitch. Il medium è il messaggio.

Ma in un altro senso, il videogioco in quanto tecnopatologia contemporanea, è uno degli stupefacenti preferiti degli hikikomori di ogni età e classe sociale. Nell’era della pandemia, il mondo in una stanza è diventato mainstream e la window del computer il portale privilegiato a un esterno che è sempre interno. In questo senso, il videogioco—una tecnologia appositamente creata per creare dipendenza nei soggetti più influenzabili—è un’attività simultaneamente fine a se stessa e funzionale al sistema capitalistico, che legittima e riproduce grazie a un continuo respawn. Il videogioco, nelle sue manifestazioni mainstream, privilegia le politiche più repressive, promuove gli stereotipi più banali, celebra il sessismo, reifica le ineguaglianze, estende l’infantilizzazione fino allo stadio geriatrico. Espressione compiuta del complesso militare-industriale, il videogioco è un esercizio solo apparentemente disimpegnato di imperialismo. La feticizzazione delle armi. La celebrazione della guerra giusta. La morale manichea del noi contro di voi. La difesa del territorio. Let’s play. È il tipo di “cultura” difesa a spada tratta (Anduril, probabilmente) da brigate di troll con il beneplacito (di quel che resta) della stampa specializzata (guida all’acquisto) e il disinteresse della stampa mainstream (guida all’acquisito). L’“ironia” dissacrante del troll maschera appena l’intento reazionario e conservatore. Anonimo, certo. Ma trasparente. Niente di nuovo: déjà joué.

La cultura videoludica riflette la più vasta e profonda dissoluzione sociale: in questo senso, la contrapposizione tra il gamer folle omicida e la società sana ed equilibrata è del tutto aleatoria. Il prepotente ritorno dell’estrema destra sulle scene politiche internazionali, Italia compresa, è stato preceduto da incessanti pseudo-battaglie ludo-culturali su internet che hanno generato una retorica complottistica generalizzata. Come ci ricorda T.L. Taylor, il videogioco è, da sempre, il proverbiale canarino nella miniera: se vuoi intravedere lo sviluppo sociale e scorgere i possibili futuri che ci attendono, presta attenzione ai videogiochi e ai videogiocatori. Del resto, come sostiene l’edgelord Musk, il mondo è una simulazione in cui vige la legge del joypad. In questo senso, non è tanto l’anomalia del gamer a inquietare quanto la sua normatività. Il videogioco dispensa fantasie di potere—banali, stereotipate e proprio per questo efficaci—a soggetti che riproducono passivamente lo status quo, incapaci di immaginare una qualsivoglia alternativa. Il videogioco promette fantasie di dominio e di vendetta a una generazione di sconfitti. Il risentimento si esprime—ma non si esorcizza—attraverso i riti identitari della mascolinità geek. Sullo schermo sei un “vincente”.

Il videogioco ti offre gratificazioni sconosciute nel mondo reale. Ti fa sentire forte. Ti fa sentire importante. Ti fa sentire eroico anche quando il tuo eroismo consiste nel muovere una marionetta per mezzo di un telecomando senza fili. Un fil rouge collega il superomismo agli hobbit a Call of Duty. Puoi infliggere ogni forma di violenza a soggetti e interi gruppi che non si conformano alla tua visione di realtà senza subire alcuna conseguenza: puoi bastonare le prostitute digitali quanto ti pare e caricare i video su YouTube per collezionare pollici su e cuoricini. Puoi insultare la blogger di turno. Puoi molestare la streamer emancipata. Puoi denigrare tutti quelli che non la pensano come te. Lo sciame ti adora. Gli hooligan ti rispettano. Qui puoi performare quei ruoli che ti sono preclusi IRL. Puoi simulare la volontà di potenza. Qui puoi sperimentare il Trionfo della volontà. La cultura videoludica coltiva fantasie fasciste. “Abbonati a PewDiePie”. L’immunità nerd si estende alle pratiche retronostalgiche, espressione passatista e conservatrice di un’epoca che, come l’eredità del colonialismo, è celebrata ardentemente in alcuni circoli. Dimmi a cosa giochi e ti dirò chi sei.

Say No! More (Studio Fizbin, 2021)

C’è davvero poco di giocoso nel videogioco, tecnica di training che incentiva l’apprendimento di logiche attraverso meccaniche non negoziabili. La nuova catena di montaggio: tempi postmoderni. Feticizzi l’interattività ma non ti rendi conto che videogiocare significa ripetere schemi senza produrre alcuna melodia: alla gioia creativa si sostituisce la noia del grinding. Ieri fort/da, oggi Fortnite. Il videogioco come suprema tecnologia disciplinante: la scatola di Skinner, con distintivi e trofei. Il gameplay è propedeutico al bullshit job che performerai con infinita gratitudine e in modo diligente fino a quando l’algoritmo e il robot ti sostituiranno for good. Il videogioco è una delle forme di soggettivazione più avanzate della società capitalistica: non a caso, il medium cresce e si sviluppa insieme al neoliberismo, i cui natali “ufficiali” coincidono con l’avvento del regime reaganiano e thatcheriano (disclaimer: non è fiction). Non esiste la società, esistono solo i gamer. La tecnologia videoludica alimenta e ammalia, amministra e ammaestra. La crescente alienazione è offuscata dalla proliferazione di interazioni parasociali, fortemente competitive, puramente schermiche, deliberatamente schematiche, rigidamente algoritmiche, essenzialmente economiche.

Anche nei videogiochi, come nel mondo “reale” tutti i giocatori sono uguali, ma quelli con la grana sono più uguali degli altri. Paga-per-progredire. È la “meritocrazia” del libero mercato: ingolla la pillola rossa. Pay per play. In quanto massima espressione del capitale ludico, il fandom è una forma di supremazia subculturale, una pratica intimidatoria contro i normies che non sanno, non capiscono, non apprezzano: demarcare! delegittimare! destabilizzare! La lore come espressione della logica complottistica di quelli che che hanno smesso di credere nei fatti o forse non hanno mai cominciato: il gossip dei maschi bianchi duri-puri, orgogliosamente geek, le techno-comari dei forum che “fanno ricerca”. Nel cosplay, il carnevalesco bachtiniano perde qualsiasi valenza erotica e sovversiva per ridursi a personal branding, totale identificazione con il marchio, sodalizio carnale con l’immaginario consumistico. Il videogioco è il tuo unico orizzonte di possibilità: amalo e rispettalo.

Un prete una volta mi ha detto: quando non ci sarà più posto nell’inferno del virtuale, i videogiochi cammineranno sulla terra. Il che spiega l’ossessione contemporanea per la ludicizzazione: la gamification del lavoro, della scuola, di ogni sfera dell’esistenza è un epifenomeno del tardo capitalismo. Il videogioco offre alle masse in forma del tutto illusoria massime possibilità di autorealizzazione. Mondi utopici eppure accessibili, ideali eppure praticabili. Non sottovalutare il potere di Sony PlayStation. Andrew Wilson, Amministratore Delegato di Electronic Arts, ha minacciato di trasformare le nostre vite in un videogioco: abbiamo la tecnologia per farlo. Non esiste alcuna alternativa.