Del mettersi in gioco

Storie e videogiochi: un matrimonio imperfetto.

Lungo il tratto finale di un sentiero sterrato che attraversa una foresta dello stato di Washington, dove la vegetazione si dirada e il litorale scivola malinconicamente nell’oceano, intravedo il profilo sbilenco di un’enorme costruzione a dominare la scena; ha la forma inconsueta di un albero cresciuto male, forte di un tronco robusto ma con pochi, fragili rami protesi di lato a svantaggio di un equilibrio già precario. La casa dei Finch, dal nome di coloro che un tempo l’abitavano, da sette anni giace così abbandonata, come un ricordo doloroso lasciato soffocare nel profondo del cuore.

Guardo il mondo con gli occhi di Edith, l’unica sopravvissuta della “famiglia più sfortunata d’America”, e mentre faccio ritorno con passo lento alla vecchia magione, i suoi pensieri affiorano sullo schermo sotto forma di parole per indicarmi la direzione da seguire: mi parlano di un’antica maledizione che ha condotto ognuno dei suoi cari a una fine prematura; di fratelli scomparsi e nonni morti troppo giovani per essere ricordati; di stanze chiuse per sempre dall’impeto della rabbia, nel tentativo di confinare la disperazione dietro una porta sigillata.

What Remains of Edith Finch (Giant Sparrow, 2017) è un videogioco che parla di come scendere a patti con la morte, anche quella più tragica e ingiusta, celebrando la vita come un evento misterioso e straordinario. Gli ultimi momenti dei membri della famiglia Finch vengono rappresentati attraverso immaginifici flashback interattivi, nei quali l’enfasi mitopoietica della narrazione esorcizza una realtà grigia e impietosa colorandola di fantasie. Scivoli che diventano draghi, viscidi mostri marini nascosti sotto il letto, viaggi onirici e silenziose uscite di scena verso mondi incantati: personaggi e ricordi che rimangono per sempre vivi(di), eternati dalla suggestione favolistica del racconto. È una storia brillante, con personaggi intriganti, tempi narrativi perfetti e una conclusione intelligente e profonda; una di quelle da consigliare senza pensarci due volte, se si trattasse di un romanzo o di un film.

Un estratto dal libro
Nerdopoli
A cura di
Eleonora C. Caruso
Pubblicato da
effequ
Anno
2018
Circa un anno fa condividevo con entusiasmo queste mie considerazioni con un amico esperto di cinema, tracciando paralleli con il realismo magico di Tim Burton e la sua fascinazione per il grottesco come via di fuga dalla mediocrità della vita reale. Credevo di coinvolgerlo chiamando in causa la sua materia, ma la conversazione, ahimé, si è arenata invece sull’obiezione di quanto fosse di per sé sminuente l’idea di (video) giocare con la morte. Di fronte all’insistenza dell’argomentazione semantica ho finito per lasciar cadere il discorso, anche perché ormai ho perso il conto delle volte in cui mi sono ritrovata a ripetere che il termine ‘video game’, o meglio ‘computer game’, è emerso negli anni Cinquanta per identificare una forma nuova di intrattenimento all’epoca narrativamente impegnata quanto potevano esserlo i primi esperimenti col cinematografo dei fratelli Lumière. Oggi invece, per quanto la componente ludica sia ancora centrale nella maggior parte dei titoli che vengono prodotti, il termine ‘videogioco’ è tornato a rappresentare una varietà di generi (dalle avventure grafiche alle visual novel, solo per citarne alcuni) dove il fulcro dell’esperienza è innegabilmente spostato sulla storia.

Non posso comunque negare che simili momenti di imbarazzo ricorrano spesso con alcuni dei miei interlocutori.
Quando noto la perplessità divertita che la mia risposta “Mi occupo di videogiochi” a volte suscita in chi mi chiede quale sia il mio lavoro, ormai incasso il pregiudizio con nonchalance, ma ricordo ancora bene il periodo in cui mi sentivo in dovere di mettere subito in chiaro come stessimo parlando “di un fenomeno relativamente giovane, ma già culturalmente rilevante”.

Anche se scrivo, traduco e, più in generale, opero nel settore da circa dieci anni, la mia passione si è sempre divisa tra la necessità di difendere il valore del mio lavoro dagli attacchi dei detrattori—i videogiochi saranno sempre un passatempo infantile per qualcuno, un terribile strumento di depravazione per altri—e lo stimolo intellettuale che mi spinge a soffermarmi sui limiti del medium nella stessa misura in cui amo elogiarne i meriti. Tali limiti tuttavia, quasi a conferma dei preconcetti di cui sopra, spesso trovano la loro manifestazione più evidente proprio nella storia e nello storytelling.

What Remains of Edith Finch (Fonte: Annapurna)

Di rivincite dei nerd e operazione nostalgiche

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una sorta di rivincita della cosiddetta ‘cultura nerd’, passata dall’essere un fenomeno poco più che marginale a vero e proprio traino dell’intrattenimento mainstream. Generi come il fantasy e la fantascienza, prodotti come le serie TV, i film di supereroi, i fumetti e i videogiochi rappresentano oggi un mercato più che mai prolifico che attrae consumi e investimenti e si celebra attraverso eventi che ogni anno coinvolgono centinaia di migliaia di appassionati in tutto il mondo. Parlare di massificazione della cultura nerd è forse eccessivo, ma il fatto che attualmente i videogiochi fatturino più dell’industria del cinema e della musica messi insieme rappresenta la prova che, per quanto esista ancora un evidente e incolmabile scarto generazionale, probabilmente nel corso di un paio di decadi saranno davvero in pochi a poter dire di non aver mai preso in mano un gamepad.

Per me, al contrario, è difficile immaginare un periodo qualunque della mia vita senza i videogiochi. I miei primi ricordi in merito hanno pochi colori: la combinazione lisergica di ciano e magenta che dominava nella schermata iniziale di Alley Cat (SynSoft, 1984), e lo sgraziato verde-su-blu del bellissimo Microsoft Decathlon (Microsoft, 1982). Procedendo a piccoli passi nei ricordi, vedo una me di otto anni smaniare per avere un Game Boy con Super Mario Land (Nintendo, 1989)—che all’epoca costava l’equivalente di una pagella carica di dieci più tre pomeriggi a settimana di faccende domestiche. Scorrendo il resto della mia infanzia vedo passarmi rapidamente davanti un trionfo di pixel variopinti chiamato The Secret of Monkey Island (LucasArts, 1990), l’incredibile immersività delle tre dimensioni di Tomb Raider (Core Design, 1996) e il primo anno di liceo con la mia prima vera console da salotto, la neonata PlayStation, dove girava la stupefacente sequenza di apertura di Final Fantasy VIII (Squaresoft, 1999).

So bene che provando a concentrarmi per scavare nei ricordi posso pescare altrettanti libri e film, eppure i ponti della memoria che li collegano sono instabili e sconnessi. È più facile con la musica—una sorta di naturale sottofondo della vita—eppure libri, film e canzoni, nel modo in cui si lasciano fruire, sono sempre rimasti uguali a se stessi: devo ancora andare al cinema e condividere la sala con diverse decine di chiassosi sconosciuti per vedere all’uscita il nuovo Blade Runner, e per quanto gli ebook reader mi abbiano decisamente migliorato la vita, il loro contenuto differisce solo al tatto—e all’olfatto, come in molti ci tengono a ribadire—da quello dei volumi che custodisco in libreria.

I videogiochi invece hanno un’essenza diversa, che cambia forma ed evolve. Sono letteralmente cresciuti con me, in un entusiasmante susseguirsi di incredibili metamorfosi: di anno in anno diventavano più belli, più complessi, più grandi, e l’arrivo di ogni nuova console coincideva sempre con una rivoluzione che ci lasciava scombussolati, quasi come rivivere la pubertà una volta ogni lustro. Elencare tutti i cambiamenti che hanno interessato i videogiochi, anche solo negli ultimi trent’anni, richiederebbe un intero libro a parte. Basti pensare al modo in cui l’online ha allungato esponenzialmente la durata di alcune esperienze, o a come l’alta definizione ci abbia catapultato in un battito d’ali nell’epoca del fotorealismo. I videogiochi del passato sono sorprendentemente diversi da quelli di oggi, al punto da sembrare quasi un’altra cosa. Forse anche per questo motivo noi videogiocatori siamo così vulnerabili alle cosiddette ‘operazioni nostalgia’, e agli attacchi cronici dei “si stava meglio quando si stava peggio” che ci fanno sembrare molto più vecchi della nostra età media di trent’anni.

Vedere gli sviluppatori applicarsi con tale costanza per migliorare il lato tecnico ed estetico delle loro opere mi ha portato a credere, e forse a pretendere, che uguali, immensi progressi avrebbero coinvolto l’aspetto narrativo e la caratterizzazione dei personaggi che le popolano; eppure, in questo frangente, i videogiochi si sono mossi con straordinaria lentezza, in particolare alcuni generi di incredibile popolarità—come nel caso degli sparatutto bellici à la Call of Duty—da sempre intellettualmente imbrigliati dalla retorica dei ‘buoni contro i cattivi’. E anche quando non si possono muovere obiezioni in merito ai contenuti, è spesso la scrittura a offrire il fianco alle critiche più disparate, vuoi per l’eccessiva verbosità dei testi oppure per la banalità dei dialoghi, troppo di frequente assoggettati alla necessità di informare il giocatore, piuttosto che coinvolgerlo, tanto da avere completamente normalizzato la pratica snervante dell’enunciazione dell’ovvio1.

Come tanti miei coetanei e non, a lungo ho atteso che il progresso tecnologico aprisse a possibilità un tempo impensabili per dei processori a 8 o 16 bit. Se l’esposizione delle storie di una volta era inevitabilmente vincolata alla semplicità dell’hardware in dotazione agli sviluppatori, con il susseguirsi delle generazioni di console—siamo ormai alle porte della nona era—la necessità di un ulteriore salto di qualità comincia a farsi insistente.

La domanda da porsi a questo punto è: cosa frena davvero l’evoluzione dello storytelling videoludico?

Life Is Strange (Fonte: Square Enix)

La storia non conta

Anni fa assistetti a un seminario tenuto da David Cage (Detroit: Become Human) all’università di Tor Vergata di Roma. Reduce dall’esperienza di Heavy Rain (Quantic Dream, 2010), il designer francese prendeva di petto il tema della narrazione nei videogiochi, declinandolo secondo la sua particolare, e non sempre condivisibile, visione personale. Ricordo però che mi fece sorridere quando paragonò la struttura narrativa della maggior parte dei prodotti definiti ‘Tripla A’ (giochi che richiedono investimenti multimilionari e che di norma producono altrettanti introiti) a quella dei film porno: si procede alternando scampoli di storia, solitamente affidati alle ‘cutscene’ (intermezzi non interattivi durante i quali i personaggi dialogano o si verificano eventi fuori dal controllo diretto del giocatore), a lunghe sequenze di azione2.

Chiaramente, nel porno la natura dell’azione—se così la si vuole chiamare—è di altro genere, ma in effetti non è sbagliato sostenere che nei film per adulti, così come nel nostro medium di riferimento, la trama si trovi in posizione subalterna, e non costituisca la ragion d’essere dell’esperienza. Negli anni abbiamo assistito alla progressiva esasperazione di questa ripartizione, che si fa particolarmente rilevante in quel genere di giochi di azione e di avventura che ricadono nella categoria dei titoli story driven, quelli dove è la storia che detta il ritmo e i cambiamenti del gameplay. Si tratta di un problema che in molti, oltre a Cage, hanno provato a superare, ma se si esaminano le soluzioni praticate finora sembra davvero di essere alle prese con un nodo gordiano. Secondo Jonathan Blow (Braid, The Witness), uno degli autori intellettualmente più impegnati dell’industria, questo procedere su binari paralleli sarebbe infatti la conseguenza inevitabile di un ‘conflitto strutturale’ tra storia e sfida radicato nella natura stessa del medium.

Per quanto pesino come una sentenza, c’è sicuramente del vero nelle parole di Blow, attestato dal fatto che ogni tentativo di integrare senza soluzione di continuità storytelling e interazione ha sempre coinciso con un notevole sacrificio sul versante del gameplay. È il caso stesso delle opere più famose di David Cage, o dei titoli, narrativamente ottimi, sviluppati da TellTale Games (The Walking Dead); oppure ancora di Dontnod e dell’acclamato Life is Strange. Giochi costruiti sull’ossatura delle vecchie avventure grafiche, dove tuttavia il giocatore viene sfidato a confrontarsi non tanto con enigmi o puzzle ambientali, ma piuttosto con le cosiddette ‘scelte morali’. L’abilità in questo caso non sta nel trovare l’oggetto giusto per procedere nella storia, ma nel destreggiarsi in situazioni di crisi emotiva prendendo decisioni che conducano allo sviluppo migliore possibile della trama. Se il peso che incombe su tali scelte è palpabile, perché spesso influiscono sul destino di personaggi con i quali abbiamo passato ore ad approfondire i rapporti, le conseguenze delle stesse sono quasi sempre illusorie: a oggi, è difficile citare un solo gioco che sia riuscito a implementare in maniera impeccabile percorsi narrativi multipli.

Uno dei problemi principali riguarda la difficoltà nel rendere persistenti gli effetti che determinate decisioni possono avere sul mondo di gioco, così da costituire il presupposto per ulteriori sviluppi del racconto. Nel più ovvio degli esempi: se scelgo di uccidere un personaggio, l’evento dovrebbe avere ricadute su chiunque mi stia intorno, e influire permanentemente sui miei rapporti con gli altri. Nella realtà dei videogiochi attuali però le cose stanno diversamente, e nel migliore dei casi le diramazioni che dalle scelte derivano tendono a ricongiungersi nel giro di pochi cambi di scena, oppure hanno effetto su una porzione limitata dell’universo di gioco ed eventualmente sul finale; nel peggiore, le incongruenze e i buchi di trama diventano via via più evidenti, incidendo notevolmente sulla credibilità dei personaggi e della storia.

Dear Esther (Fonte: The Chinese Room)

Il giusto mezzo

Per quanto nelle moderne avventure grafiche le possibilità di (inter)azione si siano notevolmente ridotte, al giocatore rimane comunque uno spiccato margine decisionale che comporta la possibilità di incorrere in una qualche forma di game over: che questo coincida con la morte del personaggio o con il peggiore degli epiloghi possibili, poco importa. Da sei anni a questa parte, tuttavia, un nuovo genere di giochi ha preso forma negli spazi creativi dello sviluppo indipendente; quello che viene definito, in tono spregiativo, dei walking simulator o “simulatori di passeggiate”, a volerlo tradurre.

Nati in forme poco più che sperimentali e approdati al successo commerciale grazie a Dear Esther (The Chinese Room, 2011), i walking simulator sono ritenuti da molti dei ‘giochi-non-giochi’ e sono la conseguenza più estrema di quel tentativo di far emergere la storia, anche a scapito del gameplay, di cui abbiamo detto finora. Nei titoli in questione, infatti, la sfida non esiste, c’è solo l’interazione, nella forma più elementare possibile: ci si limita in buona parte a far muovere il personaggio negli ambienti di gioco—a farlo camminare, per l’appunto—avendo al massimo la possibilità aggiuntiva di interagire con qualche oggetto.

In Dear Esther ci ritroviamo a passeggiare in un’isola deserta dell’arcipelago delle Eridi mentre il protagonista divaga sul senso della propria esistenza, in un susseguirsi di monologhi, a volte deliranti, che intrecciano gli echi di alcune oscure vicende personali con l’affascinante folklore del luogo. È un’opera di indubbio interesse, non fosse altro per il merito che ha di riportare, per la prima volta dai tempi delle avventure testuali, la potenza evocatrice delle parole a un ruolo centrale. Inutile dire che questo tipo di approccio ha attirato critiche e lodi quasi in egual misura, ma anche inaugurato una tipologia di giochi che si adattano particolarmente alle esigenze degli sviluppatori indipendenti: i walking simulator sono infatti titoli tecnicamente facili da realizzare, ma richiedono anche ambizione artistica e coraggio, che non sono certo alla base della ricetta tipica di un blockbuster. Se prendiamo alcuni dei titoli più di successo nel genere, come Firewatch (Campo Santo, 2016), Gone Home (Fullbright Company, 2013) o lo stesso What Remains of Edith Finch—che citavo in apertura e che lo scorso anno si è aggiudicato il titolo di Miglior Gioco ai BAFTA—noteremo come ognuna di queste opere si sia soffermata a raccontare una delle tante sfumature dei problemi che affliggono la vita reale. Questi personaggi che amano così tanto camminare e riflettere, si confrontano con la solitudine, con la diversità, con la paura della morte, non hanno mondi da salvare o i superpoteri per farlo, e in questo sono molto più simili a ognuno di noi. Viene da domandarsi, quindi, se sia davvero indispensabile annullare tutto quello che concerne la sfida e il divertimento nel senso propriamente inteso, per far entrare la quotidianità nei videogiochi.

Finora ho parlato di titoli che pongono dei limiti ben definiti al giocatore e reinterpretano il concetto di sfida in funzione della narrazione, oppure scelgono di eliminarlo del tutto dall’equazione. Poiché, qualora uno sviluppatore decidesse di non rinunciare a un gameplay più vario e strutturato, si ritroverebbe inevitabilmente a fare i conti con quella che viene chiamata ‘dissonanza ludonarrativa’, ovvero l’immancabile assenza di corrispondenza tra le istanze della trama e le azioni dei personaggi nelle fasi di gameplay. Banalmente parlando, ogni volta che la storia ci spinge a compiere un’azione con una certa urgenza (salvare un compagno, sventare una minaccia, impedire una disgrazia e così via), anche solo la possibilità di rimanere fermi a non far nulla genera una contraddizione evidente in termini narrativi.

Si tratta di un problema, per esempio, con il quale ha dovuto scontrarsi più volte Amy Hennig, autore di punta della serie Uncharted, sviluppato da Naughty Dog fino al terzo capitolo, che ha rivelato di aver avuto più di un momento difficile scrivendo il protagonista del gioco, Nathan Drake: non serve un’analisi approfondita del personaggio, infatti, per notare come l’affabilità e lo spiccato altruismo che emergono nelle scene filmate mal si conciliano con i crimini da sociopatico di cui si macchia nel gameplay (anche se uccidere centinaia di persone in poche ore e far esplodere altrettanti edifici è considerata una cosa di tutti i giorni nel turbolento mondo dei videogiochi).

Uncharted 4 (Naughty Dog, 2016) nelle intenzioni della Hennig—così come documentato da Jason Schreier in Blood, Sweat, and Pixels (Harper Paperbacks, 2017)—doveva rappresentare il superamento di questa inconsistenza, rinunciando in parte agli infiniti scontri a fuoco che da sempre costellano la serie. La storia però ha avuto un altro corso; Amy Hennig ha lasciato Naughty Dog per dedicarsi ad altri progetti (con altrettanta scarsa fortuna) e la dissonanza ludonarrativa del quarto capitolo delle avventure di Nate è ancora lì a farci storcere il naso. Sarebbe ingiusto però non riconoscere a Uncharted 4 il merito di aver raggiunto una delle vette più significative, per qualità dei dialoghi e credibilità dei personaggi, che il medium possa vantare: è davvero difficile infatti trovare, ancora oggi, giochi che riescano a tenere alto il livello di scrittura per oltre venti ore, senza mai scadere in scambi di battute che suonino come dei banali riempitivi.

Quando vedo uno di quegli action movie di Hollywood, pieni di uomini sotto steroidi e macchine che esplodono solo guardandole, so stare al gioco della finzione e, anzi, mi godo la dissonanza morale per l’effetto esilarante che genera. Nello scontro finale di Commando (Mark L. Lester, 1985), Schwarzenegger impala il cattivo con un tubo di ferro davanti agli occhi della figlioletta che, invece di svenire per lo shock, lo ripaga con un sorriso estasiato. Nessuno può venirmi a dire che non si tratti di una scena perfetta, magistralmente posta a chiusura di un’ora e mezza di puro divertissement. Il fatto che un buon film d’azione, per essere tale, debba necessariamente rinunciare a prendersi sul serio, ci dice che l’errore di molti videogiochi—più che mai evidente nel recente reboot della serie di Tomb Raider—è proprio quello di voler sembrare narrativamente impegnati saccheggiando, allo stesso tempo, l’immaginario e i topoi di un genere cinematografico che non aspira ad esserlo.

Non c’è dubbio che l’importanza della storia e della scrittura siano ancora notevolmente sottovalutate dagli studi di sviluppo, in particolare da quelli che si trovano a fare i conti con le esigenze di publisher che devono solo far quadrare i bilanci agli occhi degli investitori nei report trimestrali. Per tornare alle parole di Blow, se davvero storia e sfida presentano presupposti inconciliabili, allora sarebbe davvero meglio che i videogiochi abbandonassero gli strumenti della narrazione esplicita, tipici della letteratura e del cinema, veicolando i loro messaggi solo attraverso l’interazione. Esistono intuizioni eccellenti in merito: su tutte, quelle del bellissimo Journey (Thatgamecompany, 2012), incantevole metafora sul senso della vita che acquista nuove dimensioni di significato a seconda che lo si completi in singolo oppure con uno sconosciuto incontrato online.

Videogiochi come questo ci sembrano sicuramente più fedeli a se stessi e al medium che rappresentano, ma da un punto di vista strettamente legato alla storia, stanno allo storytelling come la poesia sta al romanzo. Per questo, l’idea di negare ai videogiochi la possibilità di raccontare storie avvincenti attraverso i dialoghi, l’intreccio e i personaggi, suonerebbe come una scelta dettata solo da un sordo purismo. In definitiva, la necessità di rivedere la struttura dello storytelling videoludico dalle fondamenta per il momento non sembra essere prioritaria, e tale probabilmente rimarrà fino a quando i videogiochi condivideranno con i film lo stesso mezzo di fruizione, ossia lo schermo di un televisore. Tuttavia, la strada percorsa fin qui ci fa ben sperare che una nuova rivoluzione tecnologica ci attenda dietro l’angolo: in un futuro in cui la realtà virtuale divenisse lo standard dell’esperienza videoludica—superando i limiti e le costrizioni odierne—lo schema oggi predominante ‘azione-cutscene’ potrebbe essere naturalmente superato. E questo è solo uno dei tanti scenari in procinto di aprirsi sul nostro domani, che rimane pieno di incognite ma anche di grandissime opportunità.

Note

  1. Anche in un titolo con notevoli ambizioni narrative come Metal Gear Solid 3 c’è una scena in cui Para-Medic avverte Snake: “When you get shot, sometimes you’ll suffer a gunshot wound” (“Quando ti sparano, potresti sentire il dolore di una ferita da arma da fuoco”). La battuta è così ridicola da essere diventata un meme. ↩︎
  2. Della conferenza di Roma, tenuta in occasione dell’Italian Videogame Developers Conference 2011/2012 Preview, non sono disponibili video o una documentazione completa. Cage ha tuttavia ribadito la sua posizione in diverse interviste. ↩︎