Game of the year è un film politico

Il documentario di Alessandro Redaelli racconta i mestieri legati al gaming in Italia.

Guardando Game of the year si potrebbe avere l’impressione di seguire le storie di alcuni alieni caduti improvvisamente sulla Terra. Davvero esistono queste persone, davvero vivono nelle loro stanze e nei loro studi, lavorando con tutto quello stress addosso?

Non è così, ovviamente: i protagonisti di questo secondo documentario d’osservazione di Alessandro Redaelli—il primo era Funeralopolis, se n’era parlato molto bene—sono giocatori professionisti, streamer, sviluppatori, content creator. Persone reali, che in modi molto diversi abitano il settore videoludico italiano in questo momento. In questo momento, non perché il film sia una sorta di instant movie (anzi, è frutto di un lavoro di tre anni), ma perché il mondo del gaming evolve a grandissima velocità.

Di sicuro, il settore non è mai stato tanto ricco e complesso come in questi ultimi anni, anche in Italia. Soprattutto di questa complessità si fa carico il raffinato racconto corale di GOTY, portando per la prima volta sullo schermo—almeno nel nostro Paese—le storie di chi vive dall’interno quella che è la principale industria dell’intrattenimento a livello globale.

Ho parlato di GOTY con Alessandro Redaelli (di seguito AR) e con Ruggero Melis (RM), co-autore del film insieme allo stesso Redaelli e a Daniele Fagone.

MM: Com’è nato GOTY?

AR: La scelta di raccontare il videogioco nasce dal mio desiderio di diffondere la divulgazione di un medium che viene quasi tenuto nascosto nell’ambito più popolare e mainstream, nonostante sia la culla dei nuovi autori, muova miliardi di dollari, e in Italia tocchi il 43% della popolazione. Il fatto è che bisogna smetterla di pensare al videogioco come a un “linguaggio minore” o come a un mercato di nicchia, per cui spero che GOTY riesca a raccontare una buona parte delle sfumature che presenta questo grande mondo.

RM: Sì, volevamo raccontare come un dato di fatto l’esistenza di un mondo che ancora oggi fatica a trovare legittimazione (presso i media, ma anche semplicemente nell’immaginario comune). Senza fare lobbying per conto di persone che non hanno certo bisogno di noi per trovare una voce, abbiamo cercato di offrire al pubblico una fotografia di una società possibile, in cui le domande più spinose (“ma è un lavoro vero?”, “è una forma d’arte?”, “i videogiochi fanno male ai bambini?”) si perdono sullo sfondo.

MM: La scelta di usare il linguaggio del documentario d’osservazione (senza interviste con domande e risposte, per intenderci) è arrivata subito?

AR: No, al contrario: inizialmente GOTY doveva essere piuttosto didascalico, una sorta di glossario utile per costruirsi un po’ le basi di quello che è il videogioco, dei suoi termini, dei suoi capolavori. Molto in fretta abbiamo capito invece che volevamo fare un documentario d’osservazione alla nostra maniera, ma lo spirito è rimasto comunque quello iniziale: dare gli strumenti per capire il videogioco a chi non li ha mai avuti, o non li ha mai cercati.

Un fermo immagine del trailer del film

MM: È stato facile trovare qualcuno interessato a produrre il film?

RM: No, prima di trovare Withstand e un produttore aperto e curioso come Davide Ferazza, abbiamo avuto molte difficoltà a “vendere” il videogioco come possibile soggetto per un film.

MM: Anche perché non è facile da presentare, questo mondo così complesso. Il videogioco, di suo, è tantissime cose. Come vi siete fatti strada in questa complessità, come avete scelto protagonisti e campi d’indagine? 

AR: Fortunatamente il mio background, come quello di Ruggero e Daniele, è pregno di esperienze legate ai videogiochi: hanno sempre fatto parte della mia vita e non nascondo che sono stati il mio primo grande amore, ancora prima del cinema. Di conseguenza non è stato particolarmente difficile andare a identificare gli elementi che volevamo uscissero in modo più preponderante nel racconto. All’inizio abbiamo fatto qualche mese di ricerca sul campo, andando alle fiere, parlando con esperti, docenti, giornalisti. Fondamentale nel corso di questa ricerca è stato Francesco Fossetti, giornalista di Everyeye che figura infatti come consulente alla sceneggiatura, e che ci ha saputo indicare al meglio i luoghi in cui andare a cercare.

MM: Avete tagliato qualcosa?

AR: Sì, una volta individuate una ventina di potenziali linee narrative siamo andati a seguirle, abbandonando strada facendo quelle che andavano a sovrapporsi, o quelle che non presentavano uno sviluppo narrativo abbastanza cinematografico. Alla fine siamo arrivati a otto linee, che si dividono tra due pro gamer, due streamer, uno youtuber e tre sviluppatori. Abbiamo tenuto fuori dal final cut anche i giornalisti, i fruitori e una manciata di altre categorie, che andremo a raccontare con un altro progetto. Diciamo che nel film prevale un certo equilibrio tra tutti i mestieri legati al videogioco: non volevamo complicare troppo il racconto con figure di contorno che avrebbero reso ancora più confusionario un mondo già di per sé estremamente stratificato.

RM: Sì, ci siamo trovati spesso a dover scegliere tra personaggi con un profilo più alto all’interno del settore e personaggi che avevano una storia personale più interessante, pur rimanendo ai margini dell’industria. La scelta è sempre ricaduta sulla seconda categoria. Alla fine, nonostante ne abbiamo parlato spesso in pitch e riunioni come “un film sul mondo dei videogiochi in Italia”, GOTY non è—e non vuole essere—un’indagine sull’industria, quanto piuttosto un ritratto di un’umanità varia che ha scelto il videogioco come forma di espressione.

MM: Ecco, le persone e le loro storie sono sicuramente il centro del film. Immagino sia però difficile tracciare il profilo del videogiocatore medio o dell’appassionato medio di videogiochi.

AR: Sì, come non esiste l’identikit del “lettore” o del “cinefilo”, non esiste nemmeno quello del “videogiocatore”. Ognuno si approccia al medium videoludico in modo estremamente personale; chi da appassionato di storie da fruire in solitaria, chi da animale da compagnia che gioca soltanto in multigiocatore, un’oretta dopo il lavoro. Il mondo dei videogiochi è così sfaccettato che è impossibile riunire in un singolo gruppo tutte le persone che ne fanno parte, ma esattamente come musica, letteratura o cinema, ogni microgruppo mantiene comunque delle caratteristiche abbastanza specifiche.

RM: Diciamo che il filo conduttore tra tutti i personaggi del film, più che il videogame, è la necessità di mettersi in gioco in pubblico. Che si tratti di rilasciare sul mercato una propria creazione, giocare in diretta davanti a migliaia di persone o competere in tornei internazionali, tutti i protagonisti in un modo o nell’altro devono fare i conti con la propria esigenza di mostrarsi al mondo. È un tratto in cui, da filmmaker, ci riconosciamo molto, ed è stato argomento di molte conversazioni durante la pre-produzione e le riprese.

La locandina del film

MM: A proposito di mettersi in gioco: in diverse scene (anche molto intime) i protagonisti di GOTY fanno i conti col successo e con lo spettro del fallimento, con l’incertezza o addirittura l’assenza di futuro.

RM: Quelle scene, in cui si fa riferimento a una vita più “convenzionale”, per me sono il cuore del film. Si parla di lauree e lavoro dipendente come se fossero la rete tesa sotto la corda dell’acrobata che prova a fare carriera coi videogiochi. Ma l’assenza di futuro a cui fai riferimento è comune a praticamente tutta la mia generazione, a parte pochissime eccezioni. Che sia la partita IVA, un lavoro da consulente, uno stage, l’incertezza non è più appannaggio solo dei creativi o di chi lavora nel mondo dello spettacolo. Quelle scene risultano più toccanti proprio perché sono quelle in cui è più facile identificarsi. Da spettatore magari non vivrò mai l’esperienza di giocare a Starcraft davanti a ventimila spettatori e competere per un ricco montepremi, ma la paura di fallire ce l’ho eccome.

AR: Il mondo del lavoro è cambiato completamente negli ultimi vent’anni. La mia generazione l’ha compreso abbastanza in fretta. Fin da quando ho capito che avrei voluto fare il regista, da ragazzino, sono sceso a patti col fatto che non avrei avuto una vita convenzionale. È una scelta che non ho mai vissuto male, e credo che i protagonisti del film abbiano fatto più o meno lo stesso ragionamento, come chiunque abbia deciso di lavorare nell’industria del videogioco. Alla fine le persone più in difficoltà riguardo all’assenza di futuro sono quelle che stanno attorno ai nostri personaggi: partner, genitori e via dicendo.

MM: Tutto questo, come già la scelta di rappresentare un mondo poco raccontato e spesso equivocato a livello mainstream, mi pare faccia di GOTY un film politico.

AR: Assolutamente. Partendo dal presupposto che ogni scelta, soprattutto nell’ambito della comunicazione, è politica, GOTY prosegue il percorso iniziato con Funeralopolis, in cui veniva esplorato un mondo nascosto ai più ma vivo, che si muove attraverso le proprie regole, e da cui è impossibile nascondersi. Anche se, rispetto al mondo del gaming, mi ha molto disturbato l’assenza di un’identità politica forte nei gruppi che abbiamo incontrato. In qualche caso abbiamo registrato anche pericolose sfumature reazionarie. Probabilmente è una questione legata prettamente al nostro tempo, e non nello specifico al videogioco, ma è uno degli elementi ricorrenti che mi hanno stupito di più.

RM: Purtroppo è vero, uno dei pochi tratti distintivi che abbiamo trovato è la scoraggiante tendenza alla conservazione e una certa chiusura nei confronti di temi sociali. C’è sicuramente bisogno di più cultura e inclusività, e meno sessismo, razzismo—e in generale intolleranza—nel mondo del gaming. Ovviamente ci sono anche molte eccezioni, persone dedite a una costante ricerca culturale o impegnate in un attivismo che fa ben sperare.

Un fermo immagine del trailer del film

MM: A proposito di ricerca culturale, una delle linee narrative che mi ha colpito di più è quella degli sviluppatori di Yonder. Il game designer Giuseppe Mancini racconta che a un certo punto ha deciso di abbandonare scrittura e letteratura per mettersi a studiare programmazione: non gli interessava più il linguaggio “come idioma” ma come possibilità espressiva. Mi sembra un passaggio chiave, anche perché nel caso di Yonder parliamo dei protagonisti più “anziani” di GOTY.

RM: Per essere un film su un medium percepito come “giovane”, GOTY parla molto (anzi, quasi esclusivamente) di millennial. Eccetto Reynor, unico alfiere della Gen Z insieme a Inox (il giovanissimo compagno di squadra di Rosi), tutti gli altri protagonisti sono over 30, e molti si avvicinano ai 40. Questo perché in realtà il videogioco è vecchiotto. Il fatto che ancora non abbia ottenuto una legittimazione mainstream gli ha impedito di entrare nell’immaginario comune durante la sua vera epoca d’oro, e adesso la parola “videogame” nella testa della gente evoca per lo più quattordicenni che giocano a Fortnite, o al massimo lontani ricordi di un vecchio Game Boy abbandonato alle medie. Mentre invece chi lavora col videogioco ci è cresciuto, lo ha avuto come costante per tutta la vita, in parallelo con la letteratura e il cinema. Gli sviluppatori di Yonder non lo hanno scoperto come alternativa: è sempre stato lì, un linguaggio pronto ad essere utilizzato.

AR: Yonder è uno dei pochi studi italiani che, a parer mio, ha compreso realmente le sfumature più culturali del videogioco. Spesso, quando alle fiere andavamo a chiedere alla gente comune una correlazione tra cultura e videogioco, ci veniva citata la ricostruzione storica di Assassin’s Creed, o quei serious game che di ludico hanno ben poco, dimostrando un’impreparazione totale nel parlare di linguaggio. Al contrario Yonder ha capito che con il videogioco si può fare cultura nel senso più ampio del termine, semplicemente contribuendo a un discorso o all’arricchimento del linguaggio stesso, che già di per sé è cultura. D’altronde la preparazione culturale di Giuseppe, Francesca e Valerio va al di là dell’appassionato di videogiochi medio: abbiamo sinceramente bisogno di persone come loro.

MM: GOTY può fare da apripista per altre produzioni che raccontano il settore e chi lo vive?

AR: È quello che ci auguriamo. Dopo un film come il nostro, speriamo che arrivi un’altra serie di produzioni ad approfondire i temi che abbiamo messo sul tavolo. Dipenderà molto da come il pubblico accoglierà il film, se chi non è appassionato deciderà di dare una possibilità a un documentario che potrebbe apparire lontano, ma che non lo è affatto.

RM: Magari sarà difficile, però spero che ne escano a decine, di film italiani—documentari o di finzione—capaci di trattare il videogioco come oggetto non più trascurabile, come parte integrante delle nostre vite e della nostra cultura. Mi auguro che in questi tre anni di lavoro su GOTY le cose siano cambiate e che il terreno sia più fertile anche per altri progetti. Vorrei che il film arrivasse a un pubblico più ampio possibile, perché è così che l’abbiamo pensato: non un film che parla di videogiochi ai videogiocatori, ma un film che parla di persone, lavoro, ambizione, trionfi e fallimenti, rivolto a tutti, anche a chi il videogioco non lo conosce.