Gamification educativa in difesa delle minoranze culturali

Come usare i videogiochi per rappresentare in modo efficace culture lontane o sconosciute.

Secondo Ethnolangue, la lingua livone era parlata nelle zone settentrionali della Livonia (territorio che comprendeva Estonia e Lettonia) e si è definitivamente estinta nel 2013, quando Kristina Grizelda, l’ultima parlante nativa di questo idioma, si è spenta. Ma perché questa curiosità etnolinguistica come introduzione ad un articolo su una rivista di videogiochi? C’è un altro passo da fare prima di arrivare al cuore di questa riflessione: chiarire cos’è la gamification. Come esaustivamente hanno spiegato sia Vincenzo Petruzzi in “Il potere della gamification: usare il gioco per creare cambiamenti nei comportamenti e nelle performance abituali” sia Jane McGonigal in “Reality Is Broken: Why Games Make Us Better and How They Can Change the World”, la gamification è una tecnica che prevede “l’utilizzo di elementi mutati dai giochi e dalle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi”.

In altre parole, si sfrutta lo “stress emotivo positivo” derivato dal gioco insieme a tutte le “categorie” che rientrano nelle game mechanics, tra cui il sistema di risk and reward, i punti, le sfide e le missioni, gli achievements. Queste meccaniche possono essere utilizzate per fini che vanno oltre il “semplice gioco”, tra cui la formazione, il marketing, l’ecosostenibilità e l’educazione. Prendiamo in esame proprio quest’ultima sfumatura della gamification: usiamo i giochi per educare alla diversità, che sia linguistica, etnica o religiosa, e quindi educare alla tutela delle minoranze culturali. Perché è importante tutelare queste minoranze? Le minoranze, come le definisce Giorgio Lattanzi, sono “gruppi che si identificano per peculiari legami etnici, linguistici o religiosi, con ciò differenziandosi dal resto della collettività del Paese preso in considerazione”.

Never Alone (Fonte: press kit)

Gli Stati membri d’Europa, nella sede della Convenzione di Strasburgo del 1996 (non casualmente successiva all’Accordo di Dayton con cui si conclude la Guerra di Bosnia Erzegovina), convennero nell’affermare che la tutela del patrimonio comune prevede inequivocabilmente la salvaguardia dei diritti fondamentali, tra cui il diritto all’identità culturale. Ricordiamo l’articolo 9 in cui si dice che “le Parti si impegnano a riconoscere che il diritto alla libertà di espressione di ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee nella lingua minoritaria, senza ingerenza delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere. Nell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa, le Parti si preoccuperanno, nel quadro del loro sistema legislativo, affinché le persone appartenenti ad una minoranza nazionale non siano discriminate”.

Da ciò si può dedurre che la diffusione a fini educativi delle informazioni relative alla cultura di un popolo rientra totalmente nella libertà di espressione e tutela del patrimonio, perché la conoscenza annichilisce il razzismo e la discriminazione. Chiudendo questa parentesi e tornando al tema ludico, un gioco per essere tale deve soddisfare dei requisiti che McGonigal evidenzia nel suo libro: “quando li si spoglia di tutte le differenze di genere e delle complessità tecnologiche, tutti i giochi hanno in comune quattro tratti definitori: un obiettivo, delle regole, un sistema di feedback e la volontarietà della partecipazione”. Soprattutto quest’ultima è una caratteristica ineludibile perché, come sottolinea Johan Huizinga “il gioco comandato non è più gioco”. Riflettendo, non basta per il grande pubblico che un videogioco sia una rappresentazione chiara ed esplicativa di una cultura lontana o sconosciuta, ma è necessario anche che vi siano degli elementi che favoriscano “l’interesse attivo degli utenti, il loro engagement per modificarne i comportamenti”.

Così, per esempio, The Mooseman si avvale di un art style eccezionale e coinvolgente per parlare di miti e storie dei popoli degli Urali, trasportando il giocatore in un’atmosfera ancestrale e un po’ onirica. Mentre Never Alone fonde il mondo degli Iñupiat eschimesi e le loro tradizioni in una storia commovente e intima. Impossibile non citare Mulaka, un action-adventure in 3D che tratta la storia di un indigeno del popolo dei Tarahumara, i quali risiedono nel territorio del Chihuahua (Messico); il titolo di Lienzo presenta un sistema di combattimento molto piacevole soprattutto nelle boss fight, e caratterizza il personaggio in modo convincente: Mulaka è velocissimo, agile, non consuma stamina perché si dice che i Tarahumara siano molto tenaci e riescano a catturare i cervi correndogli dietro.

The Mooseman (Fonte: press kit)

Insieme alle tecniche proprie dei videogiochi, che devono essere realizzate magistralmente per attirare l’attenzione, si unisce al quadro un altro fattore che è proprio della nostra epoca ed esterno a programmatori, compositori, sviluppatori: la cosiddetta “alfabetizzazione videoludica di massa”, dovuta ad una globalizzazione digitale, ha fatto sì che i giochi siano ora non solo uno strumento per lo svago ma anche per l’auto-espressione e, come sottolineato in questo articolo, per l’educazione. Un altro piccolo tassello rilevante in questo scenario è il genere a cui appartengono i videogiochi citati in questa sede: i videogiochi indie non hanno l’ampia portata dei titoli delle grandi case produttrici, ma non ne hanno neppure i vincoli, e sono più fruibili grazie ai prezzi ridotti e alla gestazione “più semplice” che richiede numericamente meno figure professionali.

Da Never Alone si impara la storia di Kunuuksaayuka1Se ne parla in “Stories of the Black River people” di Robert Nasruk Cleveland, 1980; tra l’altro nella storia originale il protagonista era un bambino, ma il team che ci ha lavorato voleva non solo parlare degli eschimesi, ma anche creare un modello di riferimento positivo per le bambine., da The Mooseman l’esistenza del popolo Chud, delle sue leggende e del territorio di Perm’2Con illustrazioni tratte da “The Animal Style of Perm” di Oborin e Chagin, 1988., da Mulaka che il Sukuruame è uno sciamano capace di parlare con gli dei e che i Tarahumara credevano in giganti come i Ganoko o i Sipabura sputafuoco. Ma tralasciando le specificità dei giochi riportati, che la cultura di un popolo faccia da setting o sia il core del gioco, affinché non sia sfruttamento ma valorizzazione, è importante che il patrimonio non sia trattato in forma stigmatizzata e stereotipata, ma sia chiaro, approfondito, basato su studi, tradizioni, e pare quasi d’obbligo una rappresentanza diretta di un testimone culturale. Sarebbe bello ed entusiasmante vedere e poter giocare a titoli che trattano la cultura dei Rapa Nui dell’Isola di Pasqua o dei Tuareg d’Algeria, Libia, Niger, Mali, Burkina Faso, per rendere il medium videoludico uno strumento ancora più vivo e valevole, senza nulla togliere ai titoli—picchiaduro, action, RPG—che ci permettono di svagare ed allontanarci positivamente dalla nostra realtà quotidiana.