Hitman 3: gioco, violenza, ripetizione

La World of Assassination Trilogy si fonda sul principio di una creatività edificante.

Nel film Tag, diretto da Sion Sono, il quotidiano della liceale Mitsuko viene ciclicamente sconvolto da continue manifestazioni di violenza, intesa quest’ultima come forza proteiforme, concreta e fatale. Nel suo apparentemente ineludibile meccanismo di ripetizione, la violenza si presenta dinamicamente sublime, come una forza smisurata e terribile che non ammette fuga. La violenza ritorna, eternamente: essa è The Constant, la costante, evocando così anche un personaggio chiave nel racconto di Hitman 3. Scostanti sono, invece, le modalità con le quali la violenza viene rappresentata. L’agente 47, il protagonista della serie di Hitman, è stato talvolta accostato, iconograficamente, alla figura dell’angelo della morte. Egli appare allora come una versione aggiornata di Thanatos, la personificazione della morte nella mitologia greca, o ancora come uno shinigami, una divinità della morte nella cultura giapponese. Riprendendo un uso contemporaneo della figura dello shinigami, l’assassino pelato incarna la forza esecutrice del potere fatale del death note, il celebre quaderno dell’omonimo manga. L’atmosfera solenne delle colonne sonore, poi, rafforza l’idea di 47 come di una apparizione quasi sovrannaturale.

L’estetica della violenza, come accennato precedentemente, varia da episodio a episodio. La serie di Io Interactive ha attraversato alcune fasi noir, gore e pulp, per approdare infine a una raffigurazione della violenza, quella attuale, decisamente più sobria. Tornando a Tag, film basato sul racconto di Yûsuke Yamada, il tema del gioco assume un peso specifico durante l’epilogo del racconto, quando la protagonista scopre di essere un personaggio del Men’s World, un videogioco grottesco che spettacolizza la violenza sulle ragazze. Per spezzare il circolo della ripetizione, la protagonista eluderà il fato facendo la differenza, agendo cioè in un modo che la simulazione non prevede: suicidandosi ripetutamente. Il sogno di violare il determinismo, e quindi la finitudine, del codice di un software, è un’antica chimera videoludica: i limiti di un videogioco vengono continuamente messi alla prova dalla community, la quale riesce spesso ad accedere a zone ctonie del mondo virtuale. A tal proposito, il saggio Every Game is an Island, di Riccardo Fassone, indaga proprio il concetto di margine nel videogioco. Se un’opera venisse percepita grande quanto il mondo che la contiene, essa cesserebbe di essere intesa come opera derivata dal reale, espandendo il concetto di realtà e divenendone parte.

Il videogioco definitivo lo si vorrebbe, fantasticando, caratterizzato da una libertà virtualmente infinita. Questo gioco, come le realtà virtuali totalizzanti della fantascienza, non sarebbe più un’opera ma una realtà: ai videogiochi non si dovrebbe però chiedere di “poter fare tutto”, ma di dirci qualcosa di significativo. La libertà totale è antitetica alla drammaturgia: se comunicare significa contenere il linguaggio, giocare significa sottostare a un sistema di regole. Ciò che un’opera non è, concorre attivamente a definire ciò che è. Dopo oltre trecento ore trascorse con il nuovo trittico di Hitman, penso alla World of Assassination trilogy, questo il nome dell’ultima trilogia, conclusasi con Hitman 3, come a una rappresentazione ciclica. Una recita, quasi una commedia nera, che culmina nell’omicidio e che si ripete, partita dopo partita, con significative variazioni. La libertà, in Hitman 3, è tenuta rigidamente sui binari da un motore, il glacier engine, creato appositamente dagli autori affinché il treno non deragli: il gioco funziona perché è ragionevolmente limitato. La World of Assassination trilogy è l’originale risultato di un compromesso fra consistenza e possibilità produttiva: molte sono le caratteristiche richieste dai fan, ma non tutte sono compatibili con il gioco che Hitman vuole e può essere.

(Credits: Ryan Cox)

La suggestione della rappresentazione ciclica è certamente condizionata da The Sexy Brutale, un videogioco indipendente per certi versi speculare a Hitman: anziché portare a compimento un omicidio, questo videogioco consiste proprio nello sventarlo, manipolando l’ambiente di gioco. In The Sexy Brutale, i personaggi sono intrappolati in un loop temporale all’interno del quale sono costretti, ciclicamente, a rivivere il loro brutale trapasso. L’indie di Cavalier Game Studios, datato 2017, vive di suggestioni freudiane, se non deleuziane: le maschere, l’eros e il thanatos, forse l’idea stessa di un teatro dell’irrappresentabile (cioè proprio della differenza, la quale conserva una connessione con “il mostro” dell’essere) sono alla base dell’immaginario dell’opera. Anche l’agente 47 ricorre alle maschere ma, nel suo caso, queste corrispondono all’abito e, di conseguenza, a uno specifico ruolo sociale. Hitman appare come un teatro della rappresentazione, e non già della ripetizione deleuziana, poiché tutto ciò che viene rappresentato è calcolato, orizzontale e determinato.

L’intelligenza artificiale, facilmente prevedibile, sta alla base di un sistema meccanico talvolta sin troppo didascalico eppure solido, funzionale allo scopo: le interazioni, infatti, sono perlopiù azioni contestuali, quasi da avventura grafica. Nonostante questo, le scenografie delle locations, sempre molto curate, ammantano gli ingranaggi del sistema con la giusta dose di verosimiglianza. La ragion d’essere della World of Assassination Trilogy consiste proprio nell’alto valore di rigiocabilità delle sue ambientazioni, le quali non si esauriscono nel concetto lineare di missione. Rubando il termine alla filosofia, una location di Hitman è uno spielraum, lo spazio ludico o del possibile. La ripetizione meccanica diventa una componente fondamentale del gioco. Marina Montanelli, ne Il principio ripetizione, afferma che «il gioco sospende la ripetizione rituale dell’identico rovesciandola in ripresa costruttiva: non reitera il ciclo né finge una linearità progressiva, piuttosto procede orizzontalmente per serie di combinazioni, per salti e contrazioni in cui il nuovo emerge dalla “manomissione” continua e gioiosa del vecchio».

Si tratta, questa, di una descrizione casualmente perfetta del concept di Hitman. Basta davvero poco, un approccio leggermente diverso, per guardare a una location non più recente con uno sguardo rinnovato e creativo. Un’ambientazione come Parigi, disponibile dal 2016, continua per l’appunto a essere stimolante anche dopo centinaia di partite. L’agente 47 è un dio che viene dalla macchina: dato un ordine iniziale, il giocatore viene stimolato, con un sistema di sfide, a sperimentare sempre nuove combinazioni e modi di manomettere il suddetto ordine. Controllando un avatar che è un cursore di fatalità, il fine è quindi quello di indurre i personaggi non giocanti, veri e propri burattini, a predisporsi per la scena dell’omicidio perfetto: la ripetizione e la conoscenza del mondo di gioco, la sua routine, rappresentano l’essenza dell’esperienza. Non è un caso, allora, se uno degli aspetti più dibattuti dai fan siano proprio i bersagli elusivi, missioni speciali che non possono essere ripetute, una volta concluse.

(Credits: Ryan Cox)

Per quanto la saga abbia talvolta ostentato la spietatezza del suo protagonista, l’identità degli obiettivi tende ad allontanare l’agente 47 dalla figura di un sicario malvagio. Le sue vittime sono, il più delle volte, arroganti criminali d’alto profilo. Come Macbeth, che riteneva di non poter essere ucciso da un uomo nato da una donna, gli obiettivi dell’agente 47 si ritengono intoccabili, schermati dal loro potere sociale ed economico: l’agente 47, come il MacDuff del dramma shakespeariano (strappato dal ventre di sua madre prima del tempo) non nasce però da una donna. L’inarrestabile assassino protagonista di Hitman è, infatti, un prodotto dell’ingegneria genetica: neanche gli imperatori possono sfuggire al suo anatema. Nella World of Assassination trilogy, l’antagonista del racconto è Providence, un’organizzazione segreta che muove i fili del mondo: il suo potere temporale, immanente, non garantisce però santi in paradiso. L’agente 47 è invece una cratofania, una manifestazione di forza pura, che spariglia l’ordine: il suo potere è deinos, silenzioso e terribile, tanto da sfibrare anche la provvidenza. Il celebre assassino, durante la sua intera carriera, si è trascinato dietro una scia di sangue e cristianesimo. In Hitman 2: Silent Assassin, l’agente 47 si ritira con Padre Vittorio nel monastero di Gontranno, con il desiderio di vivere una vita normale. Ma lui, figlio del calcolo scientifico e non dell’amore, guarda a Dio come a un padre mancato: il paradiso gli sembra estraneo come gli appare estraneo l’inferno.

Apparentemente sprovvisto di empatia, come Jack de The House That Jack Built, di Lars Von Trier, l’agente 47 non può accedere direttamente al senso di colpa senza prima trovarne la porta. La fede sembra allora la chiave: al monastero di Gontranno, l’agente 47 ci ritornerà infine come assassino, cercando la sua redenzione. Hitman: Blood Money, il capitolo più esaltato della serie, termina con una suggestione cristica: l’agente 47 risorge dalla sua bara, vestito di bianco, interrompendo i titoli di coda sotto i quali suonava l’Ave Maria di Franz Schubert. Pur non essendo un brano liturgico, quello di Schubert è comunque un forte richiamo al tema cristiano della grazia. Il fatto che alcuni sacerdoti abbiano vietato l’uso del brano in chiesa, proprio in ragione della sua origine profana, la rende la colonna sonora perfetta per l’estetica dell’opera. L’Ave Maria di Schubert rappresenta lo scandalo di ciò che, pur non essendo sacro, lo diventa, come un assassino che prega. In Hitman: Absolution, l’agente 47 veste i panni di un prete che redime attraverso il piombo. Qui, appare come una figura ibrida tra un redentore e un terminator, figura peraltro già incarnata dallo stesso cyborg di James Cameron nel secondo capitolo: “vieni con me se vuoi vivere”.

Parlando di violenza, Slavoj Žižek ci ricorda che uno dei libri preferiti di Himmler era il Bhagavadgītā, un testo sacro induista che predica il distacco dal frutto dell’atto, ovvero la sua conseguenza. Quest’idea di distacco dall’azione, continua Žižek, era strumentale al nazismo per normalizzare le sue crudeltà. Si tratta, questo, di un pensiero che trova immediato riscontro nella seguente frase di Adolf Hitler: “dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con la coscienza pulita”. Il termine gioco, non per altro, compare in un giuramento delle SS: “la vita come gioco, il gioco come lotta”. Quella perorata è allora una sorta di agentività spersonalizzata, un po’ come lo è l’esistenza di Yu Yevon che, aldilà del bene e del male, causa l’apparizione ciclica della forza distruttrice di Sin a Spira. In Final Fantasy X, Sin rappresenta un’entità distruttiva la quale, attraverso un atto di violenza mitica, impone la legge di Yevon: il diritto degli uomini si limiterà a conservarla. Yuna, la coprotagonista di Final Fantasy X, rappresenta invece quella che Walter Benjamin definiva violenza divina: una violenza, cioè, che vuole annientare il diritto. Nel caso di Final Fantasy X, tale ordinamento è il circolo di ripetizione e violenza attorno al quale ruota la figura di Sin.

(Credits: Ryan Cox)

L’attività del gioco non rappresenta soltanto un mezzo per evadere se, distaccandoci dalla realtà, ci connettiamo a qualcosa di diversamente reale: la finzione è un altro stadio del reale, ecco la grande lezione di Death Stranding. Il gioco non è “soltanto un gioco”, andrebbe quindi prestata molta attenzione all’oggetto del giocare. Il finale di Hotline Miami, un videogioco indipendente fra i più apprezzati di sempre, getta un’inquietante luce sulla percezione della violenza come gioco: il protagonista uccide perché gli viene ordinato di farlo tramite delle telefonate. Un male banale, direbbe Hannah Harendt. La violenza dell’agente 47 non è quasi mai crudele. Il sadismo, invece, è alquanto diffuso tra i suoi antagonisti. In Hitman: Contracts, assistiamo ad alcune scene fra le più inquietanti della serie: nella missione “Il party del re della carne”, ad esempio, una festa BDSM fa da sfondo al ritrovamento del cadavere, brutalizzato, della ragazza che 47 doveva salvare. In Hitman: Absolution, il capitolo più controverso della saga, la psicopatia è un tratto caratteristico di molti personaggi. Nel suo complesso, la violenza di Absolution è puerilmente eccessiva, irrimediabilmente stucchevole.

Nel corso dell’intera serie, quando non esegue ordini, l’agente 47 sembra agire quasi per ristabilire il suo contatto con il bene, salvando amici e onorando promesse. Il suo nome fittizio, Tobias, significa “il Signore è il mio bene”. Per riprendere il nome di un indicatore presente nel gioco, quello di Hitman sembra allora un malus necessarium, un male cioè al quale egli stesso è costretto sin dalla nascita. La violenza, come sostenuto dall’antropologo René Girard, si manifesta attraverso una ripetizione ciclica: convertendosi al cattolicesimo, Girard ha dato la sua risposta allo scandaloso problema della violenza. Nel prologo di Hitman 2: Silent Assassin, l’agente 47 riconosce di aver peccato, dimostrando di saper discernere il bene dal male. Pur non essendo figlio di Dio, l’agente 47 anela a un posto nel mondo. Il concetto di redenzione, comunque sia, non è niente più che un modo per aggiungere un tratto umano a quella che, altrimenti, sarebbe stata una semplice arma biologica. L’ostentazione della violenza, nella saga, raggiunge il suo apice con la triade Contracts, Blood Money e Absolution. In particolare, Blood Money fece scalpore a causa della sua campagna pubblicitaria, mentre Absolution per la presenza di suore assassine.

Nella World of Assassination Trilogy, più che la violenza stessa l’opera sembra voler esibire soltanto una sua didascalia. Oltre a punire il giocatore per l’uccisione di innocenti con un punteggio negativo, dinamica già presente negli altri episodi, la nuova trilogia fa un uso tutto sommato modesto del sangue. In diverse ambientazioni, vi sono alcuni modi decisamente splatter di uccidere: queste rare possibilità, tuttavia, hanno quasi il sapore di una citazione, come un riferimento a un altro mondo, forse agli altri Hitman stessi, dove la violenza si manifesta più brutalmente. La recente trilogia di Hitman è invece pervasa da un certo umorismo nero e dall’ironia, spesso causata dall’uso di strumenti pittoreschi, come il pesce o la mazza da clown. Anche se il tema resta quello dell’assassinio, l’ultima trilogia di Hitman si fonda sul principio di una creatività edificante, non su quello di un voyeurismo sadico. Gli stimoli offerti dal gioco risiedono piuttosto nel genuino senso di controllo, di agency, insito nelle possibilità che il giocatore ha di manipolare il mondo di gioco. La scelta di accompagnare Hitman con gli artwork di Ryan Cox, giovane graphic designer, vuole sottolineare proprio la capacità di Hitman di prescindere da una certa rappresentazione della violenza: nella World Of Assassination Trilogy, quest’ultima non è che una pelle, un dato di superficie.