Interregni

Un racconto corale di Elden Ring.

Per i primi sei mesi del 2022 non si è giocato a niente se non ad Elden Ring. I giochi di prima fascia che non erano Elden Ring manco uscivano. Per provare a far vacillare il discorso pubblico e l’hype intorno ad Elden Ring c’è voluto letteralmente un gatto, il protagonista di Stray, uscito a luglio. A fine anno il gioco di From Software pesca encomi a strascico e possiamo dire con poca paura di essere smentiti che nei videogiochi c’è stato un pre e un post Elden Ring.

Uno dei motivi è la sensazione di essere di fronte ad un apice di uno dei generi più importanti degli ultimi dieci anni, gli open world; se fare una grossa mappa e puntellarla di quest secondarie è alla portata di molti, il senso costante di scoperta, minaccia, meraviglia, e ricompensa è una prerogativa solo dei migliori. In questo mondo immenso è incastonato un sistema di gioco aperto e una storia frammentata, misteriosa, raccontata in modo sfuggente da personaggi non giocanti e dalle descrizioni degli oggetti, da mettere insieme come un puzzle.

Questo ha fatto sì che non si creasse un racconto di Elden Ring, ma che ognuno ne portasse avanti uno proprio, un pezzo di esperienza; per restituirne la complessità, la bellezza e la pluralità abbiamo chiesto a chi ci ha giocato di parlarne un po’.

Mattia Pianezzi

Le prime dieci, quindici ore di gioco di Elden Ring sono un capolavoro assoluto. La prima figura che incontro nel mondo esterno, Varré, mi parla; è sibillino e mi da solo vaghe indicazioni sulla direzione da prendere; indossa una tunica e una maschera bianca che gli copre il volto, non mi fido di lui. La seconda figura che intravedo, appena scese le scale all’esterno della cripta dalla quale sono spuntato, è un cavaliere dall’armatura dorata, scintillante; penso che anche lui mi vorrà parlare, e darmi indicazioni migliori rispetto a Varré, lui che è un cavaliere, un alleato. Col mio personaggio, Fusi (chiamata in onore della mia terribile gatta rossa morta—come tutti i personaggi di tutti i videogiochi che inizio), seminuda e con una mazza di legno che ancora non ho capito bene come utilizzare, mi avvicino al cavaliere. Mi illudo che voglia parlarmi fino a quando il cavaliere mi punta, sullo schermo appare e si allarga la sua barra della salute, e inizia a caricarmi. Rotolo via un paio di volte, schivo e colpisco, inizio a prendere un ritmo, mi illudo di potercela fare, ma scalfisco appena la sua barra vitale, i suoi colpi sono troppo forti; crollo dopo un paio di minuti di quasi panico. Da allora, e fino a quando non sono stato sicuro di poter avere la mia vendetta, quel percorso l’ho evitato, passando di soppiatto tra le piante. Imparo: in Elden Ring non dare niente per scontato—e temi tutto.

Passano alcuni giorni della vita reale, un pugno di ore di gioco. Scappando da un troll sono caduto da una rupe su una spiaggia di sabbia grigia, mi sono salvato per miracolo. Ho esplorato una grotta marina fino a ritrovarmi su un’isola solitaria che vedevo da lontano, ho incontrato la mia prima tartaruga, ma ho anche trovato un tempio antico, semidistrutto, minaccioso, del culto dei draghi. Sono entrato in un’altra delle innumerevoli grotte dell’Interregno e ho incontrato un personaggio al quale ho provato a rubare dal suo forziere due volte, così per punizione mi ha teletrasportato in mezzo ad una foresta sconosciuta.

Là mi sono accucciato tra i cespugli e ho visto dei nemici enormi, degli orsi con delle rune dipinte sul petto, che si facevano le unghie su lunghe sequoie; mi hanno beccato che cercavo di scappare (ma poi, scappare dove? la foresta sembrava senza fine, non sapevo dove andare), mi hanno inseguito e quasi ucciso fino a quando non ho trovato, per caso, un edificio, una sorta di piccola cappella. Ho pensato che là dentro ci sarebbe stato un frammento di Grazia, un punto di salvataggio del gioco, così da poter sfuggire a quei giganteschi artigli. All’interno della cappella però c’era solo una leva; non avendo altra scelta l’ho tirata. La stanza ha iniziato a girare, avvitandosi, mentre scendeva nel sottosuolo per centinaia e centinaia di metri. La cappella era la piattaforma di un ascensore che mi stava portando nel profondo della terra, in una città sotterranea dimenticata, abitata da uomini tartaruga lenti e letali, in una grotta mastodontica con una volta puntellata di minerali luminosi, così tanti da sembrare una volta stellata. Nella mia testa questo ricordo si è appoggiato di fianco ad altri: i turni al Super Nintendo con mio padre, il terrore del cane zombie in Resident Evil 2, un amico che mi insegna come bussare sul muro in Metal Gear Solid per attirare le guardie, planare lontano, tra le rovine, dall’Altopiano delle Origini in Breath of the Wild.

Elden Ring (Fonte: screenshot di Marco Montanaro)

Mentre non giocavo ad Elden Ring, spesso pensavo ad Elden Ring: a cosa fare appena tornato dentro l’Interregno; a quella torre grigia che ho visto da lontano e a come raggiungerla; all’idea di usare le rune e aumentare la mia Intelligenza per poter impugnare un bastone magico, preso dal corpo di una grossa semi-umana che avevo abbattuto con grande difficoltà tra i palazzi distrutti della Penisola del Pianto.

Ogni volta che prendevo in mano il controller finivo col giocare in maniera diversa rispetto alla volta precedente: salire di livello, esplorare, aiutare altre persone online, provare nuove armi. Non conoscevo un modo sicuro, indiscutibile, in cui “vincere” Elden Ring, quindi giocavo con una libertà inebriante. Mi nascondevo da tutti i nemici che mi sembravano troppo grossi per me, o che portavano armi enormi, ignoravo il mio cavallo, uccidevo col mio nuovo pugnale (a posteriori, un’arma tremenda) tutti gli uccelli che trovavo sulle alte scogliere di Sepolcride.

Per uno strano scherzo del destino, come spesso succede nella mia vita anche fuori dai videogiochi, non ho portato a termine la mia quest principale: ho una build forte, funzionale, ho fatto una serie di side quest profondissime fino al centro della terra. Poi, dopo un trasloco, la Playstation ha smesso di funzionare. Si accende ma fa degli strani suoni e non si vede niente sullo schermo del televisore. Dentro c’è ancora Elden Ring, fuori ci sono io, ma non sono sicuro di esserne davvero uscito.

Dario Marchetti

Attendere l’arrivo di un nuovo prodotto della mente di Hidetaka Miyazaki e della sua scuderia ha lo stesso sapore di quei lunghi periodi che passano tra un disco e l’altro di certi grandi artisti. Quando poi arrivano, però, non esiste altro all’infuori di essi. Elden Ring lo aspettavo in quanto tale. Certo, la promessa di un “Dark-Souls-ma-open-world” mi allettava, ma ad attirarmi era soprattutto il pensiero, dopo i tre Dark Souls e Bloodborne (Sekiro è in una lega a parte), di tornare a sguazzare nei meandri della psiche di Hidetaka-san, stavolta con l’aggiunta di un pizzico di George R.R. Martin. E un po’, perché no, tornare a farmi abusare dalla proverbiale difficoltà della serie. Mai, però, avrei immaginato che Elden Ring sarebbe stata una deviazione così colossale da ciò a cui gli artigiani-narratori di From ci avevano abituato.

La trilogia di Dark Souls, in fondo, si reggeva sul continuo, quanto illusorio, confronto tra ordine e caos, tra luce e ombra; sull’inevitabile ed infinito ciclo, un eterno ritorno nel quale, in fondo, ogni scelta apparentemente significativa era solo l’ennesimo bivio verso la prossima ripetizione; sui tentativi, ora beffardi, ora grotteschi, ora utopici, di sfuggire a quel dualismo. Insomma, senza tirarla troppo lunga col pippotto pseudo-filosofico: alla fine di Dark Souls 3, e visti i possibili epiloghi, un po’ mi è salito il magone. Lasciando il povero Nietzsche, diciamo che da quella saga sono uscito decisamente adombrato, quasi convinto che in fondo a che serve sbattersi se alla fine l’andare ripetutamente in vacca è lo stesso meccanismo che tiene in vita il mondo e l’umanità?

Ciò che di Elden Ring mi ha stupito, udite udite, è la luce. Che non è quella illusoria con la quale Gwyndolin tiene in vita la farsa di Anor Londo. Né quella di una fiamma ormai ridotta a tizzone ardente che permette a Lordran di vivacchiare mentre persino le divinità che dovrebbero sacrificarsi per salvare il mondo decidono che, in fondo, non ne vale la pena. Ma una luce vera, viva, pura, oserei dire tangibile. A partire da quella scintilla che ci guida lungo tutta l’avventura, la Guida della Grazia. Che non serve tanto a illuminare, perché l’Interregno non è poi così tetro, quanto a indicarci la via. Anche stavolta siamo un eroe senza nome in arrivo da un’altra terra. Anche stavolta qualcuno ci indica che siamo oggetto di una profezia, esecutori di un compito che arriva dall’alto, strumenti nelle mani di un volere più grande. Ma a differenza del passato, quando incatenarci nel binomio bene/male, luce/ombra, Frampt/Kaathe era solo l’ennesimo tranello, Elden Ring fa in fretta ad aprire il suo mondo. E con esso la moltitudine di forze in gioco. L’ordine perfetto e apparentemente invincibile è stato fatto a pezzi e non c’è un modo giusto o sbagliato di rimetterlo insieme. Oppure, perché no, lasciarlo marcire in eterno.

Elden Ring (Fonte: screenshot di Marco Montanaro)

Altro che ciclo eterno: Elden Ring si basa sull’idea, chiara e tonda, che tocca a noi giocatori decidere il destino di questo mondo. Che le nostre scelte una conseguenza ce l’avranno eccome. Ognuna foriera di cose nuove e inimmaginabili: che sia il dominio delle stelle voluto da Ranni o quello delle fiamme del caos, che sia la ricostituzione dell’Ordine D’Oro secondo altre regole, come intuito da Maschera d’oro, o la condanna globale a una terribile maledizione, realizzando il sogno dell’inquietante Mangiasterco. Una concretezza, se vogliamo chiamarla così, che io ho visto rappresentata anche nelle “forme”. Mi spiego: se Dark Souls come saga era basata sull’idea che il tempo fosse qualcosa di convulso e ingarbugliato, un crocevia dimensionale nel quale anime in pena potevano, con la giusta fortuna, incontrarsi per qualche istante, Elden Ring abbandona tutto questo wibbly-wobbly, timey-wimey, e sposta l’attenzione sul qui e ora, sul corpo come campo di battaglia e strumento di realizzazione del proprio destino. Fateci caso: le mostruosità di Godrick, il manichino di Ranni e la terribile condizione di Godwyn, la blasfemia del serpente-Rykard, le orribili mutazioni di Mohg e Morgott, il destino marcescente di Malenia e Radahn, entrambi consumati dalla marcescenza scarlatta.

Il body horror è un po’ un leit motiv di tutto il gioco, non c’è dubbio, e anche a ragione, visto che a spartirsi questo mondo ci sono diverse divinità cosmiche dai poteri incredibili (rendiamo grazie a Lovecraft) ma alle quali manca una forma fisica, fatta eccezione per le inquietanti e allo stesso tempo buffissime Due (e Tre) dita. Eppure tanta luce rischia di essere accecante: se è vero che la trilogia di Dark Souls non ci ha lasciato scampo, in termini di linearità e scelte narrative, la sua natura più raccolta ancora oggi ha un’aura potentissima, malinconica e ammaliante. Elden Ring, in fondo, è solo una storia di cui probabilmente abbiamo visto appena l’inizio.

Giuseppe Giordano

Ciao mi chiamo Giuseppe e adesso vi insegnerò come tirare fuori il peggio da un’esperienza unica. 

Ho acquistato Elden Ring al lancio, oggi è il mio secondo gioco su Steam per numero di ore, un totale di 204. Non l’ho finito—mi sono fermato al boss finale, anzi alla seconda parte dello scontro con il boss finale, praticamente un attimo prima della fine—e non ho neanche affrontato Malenia. Voi che siete bravini, o quantomeno capaci con i soulslike, state pensando che si tratta di un numero di ore spropositato rispetto ai risultati conseguiti. Non sono bravo a giocare ai souls, per quanto li trovi bellissimi, ma oltre l’incapacità di coordinamento e l’incapacità di spegnere il gioco quando tutto quello che rimane è la frustrazione (ci torniamo tra un attimo) c’è dell’altro. 

La prima console fissa da me posseduta è stata una PS1, acquistata quando ancora andavo alle elementari, nel 1998. Internet non era quello di adesso, i videogiochi erano meno carichi di contenuti e l’unico modo alla mia portata per venire a capo di una situazione di stallo era leggere la soluzione pubblicata sulle pagine di una rivista specializzata. Ho sempre pensato che leggere la soluzione di un videogioco fosse la resa indegna di un videogiocatore appassionato, la certificazione della propria incapacità di coordinazione e di analisi e comprensione del testo videoludico. Leggere una soluzione significava per me perdere immediatamente interesse per il gioco, oppure significava continuare ad andare avanti per inerzia, segnato dallo stigma del proprio fallimento, un sottofondo capace di rovinare anche i momenti più alti al di là da venire. 

Certo, ho anche qualche bel ricordo, in particolare quando ho scoperto una strada nascosta, a lungo cercata, nel livello Floating Islands in Tomb Raider II. Nella maggior parte dei casi però l’impasse in un gioco alimenta il mio senso di frustrazione e più il senso di frustrazione sale più sono incapace di staccarmi dallo schermo perché ecco, diventa una questione di principio, e a volte questo circolo vizioso assorbe così tanto tempo ed energie emotive che poi la soluzione la leggo davvero, ma per spezzare il circolo e chiudere i conti con il gioco, perché come ho già detto perdo interesse e chi si è visto si è visto. 

Non c’è bisogno che mi ricordiate quanto tossico sia un simile atteggiamento, lo so e anzi vi cito un collega che una volta mi ha detto che, quando decide di leggere una soluzione, la colpa non è mai sua ma del gioco, un’affermazione che sottintende un’autostima che non ha bisogno di conferme, men che meno dai videogiochi, e il fatto che noi videogiocatori abbiamo il sacrosanto diritto di essere messi nelle condizioni di divertirci. Se, come me, siete inclini all’auto sabotaggio vi suggerisco di tenerla a mente. Ma ora veniamo a Elden Ring che è la mia kriptonite perché è praticamente pensato per essere giocato collettivamente, come sempre più giochi in effetti vengono progettati con in testa l’idea di community, che si raccoglie nei forum e produce ogni tipo di materiale illustrativo del gameplay, della lore, della mappa, etc. Una cascata di soluzioni.

Elden Ring (Fonte: screenshot di Marco Montanaro)

Elden Ring ha un tutorial piccolo piccolo se confrontato al gigantesco (in termini di possibilità) gameplay, inoltre sa di essere così figo da poter rinunciare all’accessibilità anche dei contenuti narrativi, in modo da mantenere quell’atmosfera sospesa attraverso la quale traspira solo il fascino di qualcosa che si percepisce ma non si conosce nei dettagli. I segreti sono innumerevoli e gli oggetti sparpagliati da un capo all’altro di uno sconfinato open world. Per tutte queste e altre ragioni, il confronto tra videogiocatori diventa non soltanto necessario, ma insito nell’aver progettato un gioco chiuso su se stesso, che necessita dello sforzo di migliaia di player con la ferma intenzione di spacchettarlo.

Tutto ciò io l’ho capito troppo tardi. Ho voluto fare da solo, a volte facendo a meno anche del contributo dei messaggi degli altri giocatori a causa di problemi di connettività. Il risultato è stata un’esperienza sminuita da, in ordine: raccolta di oggetti non adatti al mio personaggio attraverso numerosi dungeon procedurali esplorati fino alla fine; farming di livello olimpionico; girare in tondo nelle tortuosità di una mappa ancora nascosta; scarsa conoscenza delle meccaniche di gameplay e delle “regole del gioco”, data anche la mia scarsa familiarità con i soulslike; a tratti il rifiuto di livellare per affrontare un boss troppo potente, un po’ perché non ero entrato neanche in quella meccanica di gioco, un po’ perché diventava la già menzionata questione di principio uscire vincitore contro un mostrone capace di ammazzarmi con una pacca sulla spalla. 

Parallelamente a tutte queste sensazioni negative scorreva la consapevolezza di avere davanti un gioco meraviglioso, alla cui bellezza però, in qualche modo, io non riuscivo ad avere accesso. Elden Ring resta il mio GOTY 2022, e, nonostante tutto, ho intenzione di tornarci e finirlo, anche se con un approccio rivoluzionato. Questa però è una storia a lieto fine, perché in questo momento sto giocando a Dark Souls Remastered, e grazie ai gameplay del fu Mike of the Desert (ora Sabaku), ho imparato, ad esempio, la differenza tra fast roll e mid roll, che mi era incredibilmente sfuggita, o il fatto che delle armi, nei soulslike, non vanno solo guardate le statistiche ma anche testato il moveset. Ah, il mio personaggio brandisce Uchigatana, che si può prendere ammazzando un mercante nel Borgo dei Non Morti: come fai a indovinare una cosa del genere se non te la si dice? 

Sono una persona nuova, ora guardo i tutorial e mi batto il pugno sul petto e indico in direzione di Miyazaki, lui lo sa e annuisce in segno di approvazione perché ho capito che 1—non c’è nulla di male nel leggere una soluzione e 2—è proprio quello che Miyazaki ti chiede di fare. Ecco, questo cambio di paradigma è avvenuto soltanto grazie alla prova del fuoco di Elden Ring, che non mi ha cambiato la vita, certo, ma la vita da videogiocatore forse sì.

Andrea Cassini

Il mio rapporto con i souls è tardivo e problematico, e forse proprio per questo è anche una delle esperienze formative più importanti della mia vita—non ironicamente. La mia prima esperienza con il primo Dark Souls meriterebbe una storia a parte, credo, per i picchi emotivi che mi ha fatto provare, nel bene e nel male. Ci sono arrivato in ritardo, anche se lo conoscevo da anni ed ero sicuro che l’avrei adorato, ma mi spaventava la difficoltà, l’inevitabile ansia che avrei provato di fronte a tale difficoltà, la delusione del dovermi arrendere. Cominciai il gioco terrorizzato e disorientato. Cercavo indizi e consigli ovunque, eppure ero sempre più smarrito. Poi qualche momento catartico. Battere Havel, ancora non so come, se i videogiochi avessero un cuore e non un freddo codice penserei che si sia lasciato sconfiggere per farmi dono del suo anello, l’oggetto che mi mancava per costruire la prima build che sentivo mia, che mi dava la fiducia di potercela fare. E infine battere Ornstein e Smough, uno dei momenti più belli della mia vita—di nuovo, non ironicamente—perché mi insegnò in un colpo solo due lezioni cruciali. La prima: sì, sei abbastanza bravo da finire un souls, puoi goderti il resto dell’avventura. La seconda: finire un souls non dice nulla del tuo valore come persona, se non il valore che tu stesso vuoi dimostrare.

Mi ci è voluto Bloodborne per capirla meglio, quella lezione, ma ancora non l’avevo assimilata.

Elden Ring (Fonte: screenshot di Marco Montanaro)

È qui che arriva Elden Ring. Lo affronto all’uscita, deciso a vivere quell’esperienza collettiva, simultanea, che mi era mancata avendo recuperato la saga in ritardo. Sono anche deciso a evitare ogni spoiler, a non leggere nessun suggerimento, ma anche a evitarmi la sofferenza che avevo patito con il primo Dark Souls. Mi accorgo che no, non è possibile conciliare tutte queste cose. Torna, strisciante, la paura di trovarmi di fronte a un boss invalicabile per le mie modeste skill, di aver costruito una build tutta sballata, o di perdermi una quest secondaria in qualche anfratto dell’enorme mappa—paura moltiplicata dal fatto che il mondo di Elden Ring, a differenza degli altri, è così meraviglioso, pur nella sua crudeltà, che ti fa venire voglia di esplorarlo.

E allora ingaggio una battaglia con me stesso, indulgo su qualche indizio, mi concedo una sbirciata ai classici siti tattici (a suo modo un’altra esperienza rara, perché erano i primi giorni di un gioco vastissimo, ed era tutta materia viva, in costante creazione), mi sento più sicuro ma anche più in colpa. I souls hanno un modo tutto loro di farti perdere il controllo, di farti capire che c’è una lezione anche nel non avere il controllo, che perdersi va bene – ma non nel senso delle frasette romantiche da diario di un liceale: perdersi è un male inevitabile, ma ritrovandosi si diventa ciò che si è.

Elden Ring mi insegna a ritrovarmi quando mi perdo. Può sembrare un mondo enorme, delirante, disorientante, ma a differenza degli altri souls, Elden Ring è straordinariamente vitale, aperto, pieno di opportunità, è una lotta per riconquistare e ricomporre, non per difendere o sopravvivere, c’è una tensione esaltante fra alto e basso, per aspera ad astra. E c’è sempre una bussola. L’Albero Madre sempre visibile all’orizzonte. Le sue radici nei territori sotterranei. La luce della grazia. O le stelle, dove punta l’ago della mia bussola, quella di Ranni.

A un certo punto smetto di cercare personaggi secondari di cui so già che non seguirò la quest, smetto di cercare armi che non equipaggerò mai, perché ho trovato un personaggio in cui immedesimarmi, ho dato un senso all’avventura che non sia solo “battere il gioco”, ma raccontare una storia vivendola. Ho la mia Dark Moon Greatsword, ho la mia guiding moonlight. “You were at my side all along”. Ho sempre paura di non farcela, ma la condivido con il mio personaggio, stavolta è diversa. Battere Malenia e Maliketh con la mia build, un bizzarro e per niente ottimizzato mago-guerriero che non si vergogna di farsi aiutare dalle evocazioni, è un’altra esperienza che ricorderò per sempre, ha legittimato la storia che stavo raccontando. Sfidare Godfrey, con la luce della sua grazia che punta verso di te, come se tu fossi il boss sulla sua strada, che si toglie il mantello da re per affrontarti da guerriero a guerriero, è stato uno di quei momenti in cui i personaggi si guardano negli occhi, e a te sembra di guardare negli occhi il game designer, di intrecciare la tua storia nella sua. Per questo, all’inizio della seconda fase di Godfrey, quando lui ti si avventa contro a braccia spalancate dandoti il chiarissimo consiglio di schivare, io ho sempre scelto di caricare l’attacco speciale della mia spada e scagliarglielo contro un istante prima che mi abbrancasse. Scambiamoci il nostro colpo migliore, il nostro sangue e una fetta di barra HP.

Ora sento di aver davvero capito la lezione, di poter affrontare il gioco senza paura—o meglio, accettando quella paura. Ma non vedo l’ora che arrivi il DLC per sbugiardare ogni mia convinzione.

Marco Montanaro

Uno dei piaceri più grandi che si possono ricavare dal giocare a Elden Ring è parlarne con gli altri. Chiedere tu dove sei arrivato? E questo l’hai scoperto? Cosa c’è in quel dungeon? Com’è quello spadone? Hai già respeccato? E così via.

Per via forse di una sorta di iper-compensazione corale (com’è noto, di suo il gioco è molto criptico e “parla” ben poco), da Elden Ring è venuto fuori un metaracconto che mi ha ricordato quando giocavo da bambino e non c’erano walkthrough, videorecensioni e streamer da ascoltare per ore su Twitch. Al massimo c’era qualche compagno di scuola anche lui con questa strana, per l’epoca, passione per i videogiochi e allora ci si confrontava, ci si aiutava reciprocamente per superare questo o quell’altro boss, a scuola, al telefono, in sala giochi o all’uscita dal catechismo.

Ma è così bello parlare di Elden Ring che puoi farlo anche da solo. Nelle prime trenta ore di gioco ho preso molti appunti vocali: all’inizio non volevo assolutamente essere influenzato nella mia esperienza dal confronto con gli altri, eppure sentivo il bisogno di parlarne. In una delle mie ultime note vocali riflettevo: “Forse Elden Ring mi sta facendo male”, e un’altra volta ho raccontato di aver sognato il gioco, di non riuscire a smettere di pensarci di continuo anche mentre facevo altro.

Poi però mi sono lasciato andare, ho mollato il registratore e ho iniziato a parlarne con altre persone. Un amico mi ha rimbrottato perché stavo passando troppo tempo a livellare a Sepolcride, perdendomi un sacco di cose (ma Elden Ring è perdere e perdersi un po’ di tutto, rune, vite, storie e cose da vedere), un altro mi sottoponeva lo screenshot della mappa con un punto cerchiato in rosso e diceva vorrei proprio vedere la tua reazione quando arriverai qui (e lì c’era il primo, enorme drago del gioco), un altro invece mi inviava dei meme di Caelid che non potevo capire, non essendo ancora stato in quella terra di orrida follia (certamente Caelid è uno dei posti peggiori in cui trascorrere del tempo videoludico).

Un’altra volta ero in una classe del mio vecchio liceo a tenere una lezione di non ricordo cosa, e a un certo punto ho chiesto: “Per caso qualcuno di voi sta giocando a Elden Ring?”. Una ragazza ha alzato la mano e ha detto “Io!”, così alla fine abbiamo parlato solo del gioco, anche con gli studenti che non lo conoscevano affatto.

Elden Ring (Fonte: screenshot di Marco Montanaro)

È strano quanta discussione tra vivi inneschi una cosa morta come Elden Ring, che tutto sommato continua a sembrarmi l’endgame di un altro videogioco, un mondo in cui tutto è già compiuto, finito e morto, in cui ogni cosa si reincarna continuamente in corpi destinati a morire—una continua resurrezione nella morte anziché nella vita, così mi è sembrato.

Anche se poi mentre lo giocavo—questo devo averlo annotato anche a voce, già nelle prime ore—osservavo i nemici persi nelle loro routine e nei loro pattern immutabili e pensavo alla vita fuori dal gioco, a tutte le nostre azioni e fissazioni quotidiane che ritornano sempre uguali, di giorno in giorno, mentre neppure ce ne accorgiamo.

Forse è stato allora che ho pensato di abbandonare l’Interregno, ma ho tenuto duro ancora un po’. Finché non è arrivata l’estate e me ne sono andato al mare.