La crisi dei videogiochi del 1983

Cause ed effetti del pesante crac finanziario di Atari, dal quale l'industria videoludica si riprese a fatica.

Immaginate un mondo in cui i videogiochi sono un articolo retró avvistato sul set di Stranger Things o in un gruppo Facebook che si chiama Che ne sanno i nati negli anni Novanta. Nintendo, dopo aver abbandonato il business delle carte da gioco, ha investito nel settore dell’arredamento casalingo diventando il principale concorrente di IKEA mentre un tal Hideo Kojima lavora come corriere per Amazon Japan. Niente video di gameplay su YouTube, dove l’ultima clip entrata nei trend italiani mostra Gianni Morandi e Rovazzi inaspettatamente insieme per una partita a RisiKo. Questa terribile dimensione alternativa in cui avete passato l’infanzia nel campetto sotto casa tormentati dai bulli (perché fate schifo in ogni sport), senza l’intimo rifugio di un Crash Bandicoot o un Sonic, è stata a un passo dal realizzarsi negli anni Ottanta, quando i videogiochi hanno attraversato una crisi pesantissima che sembrava dovesse relegarli a una moda passeggera come l’hula hoop.

È una storia in parte raccontata nel documentario del 2014 Atari: Game Over, in cui una troupe di filmmaker parte alla ricerca del leggendario sito di Alamogordo, nel New Mexico. Qui sono state seppellite migliaia di copie di E.T. the Extra-Terrestrial, il videogioco per VCS 2600 sviluppato in tutta fretta da Atari sulla scia del successo dell’omonimo film. L’immagine di innumerevoli cartucce rimaste invendute e fatte sparire sotto terra è diventata il simbolo più eloquente di una stagione tutt’altro che fortunata per il medium interattivo, ma le cause di un simile tracollo non sono ovviamente da attribuire solo all’alieno delle interurbane spaziali. Infatti, insieme a E.T., nella tomba di Alamogordo ci sono anche console, computer, accessori e copie di altri videogiochi, il materiale di risulta di un mercato che nel 1983 valeva 3200 milioni di dollari e nel 1986 soltanto cento.

Alamogordo, New Mexico (Credits: Taylor Hatmaker)

C’è una ragione perché un film quasi privo di azione abbia dato vita al videogioco più brutto di sempre? Come mai, nel gioco, E.T. atterra sul nostro pianeta per cercare i pezzi di un telefono che gli serve per richiamare la stessa astronave che ha abbandonato due minuti prima? Non sarebbe stato più facile restare sulla navicella? E.T. the Extra-Terrestrial è un videogioco, una palestra per allenare la pazienza o una riflessione filosofica sull’incapacità dell’uomo di raggiungere i propri obiettivi quando il fato (leggi il gameplay pieno di bug) rema contro? Tutte queste domande non avevano senso nel Natale del 1982, quando la corsa all’ultima novità in fatto di intrattenimento elettronico sembrava inarrestabile. Eppure la spinta all’autodistruzione di un settore pur così ricco aveva già assunto diverse forme, ad esempio quella di un ufficiale dell’esercito americano con un’erezione.

Si tratta di George Armstrong Custer, protagonista di Custer’s Revenge, in cui il giocatore deve spostare il suo avatar nudo da una parte all’altra dello schermo evitando le frecce che piovono dal cielo, fino a raggiungere una donna indiana legata a un palo per… stuprarla. Non c’è da meravigliarsi che, in momento in cui i videogiochi erano già sotto accusa per i contenuti violenti e diseducativi (tanto da essere stati oggetto di diverse iniziative legislative con lo scopo di bandirne la vendita), Custer’s Revenge scoperchiò un vaso di Pandora. Ma al di là del tema scabroso l’opera di Mystique, che poi era il ramo di una compagnia di produzione per film pornografici, dimostrava quanto Atari fosse incapace di esercitare un controllo sui titoli compatibili con la sua console.

Alamogordo, New Mexico (Credits: Taylor Hatmaker)

Su VCS 2600 era possibile giocare a Sneak n’ Peek, il nascondino virtuale, Rubik’s Cube, il cubo di Rubik virtuale o Pepsi Invaders aka Coke Wins!, uno Space Invaders della Coca Cola in cui bisogna sparare alle lettere della parola “Pepsi” invece che agli iconici alieni di Nishikado. Vale la pena citare titoli educativi ma brutti (in Tooth Protectors bisognava proteggere i denti dalle carie) e titoli diseducativi ma brutti (lo scopo di Tax Avoiders era utilizzare ogni stratagemma per evadere il fisco). Se, da un lato, una simile condizione poteva favorire la libertà creativa degli sviluppatori, nei fatti così tanta virtua-immondizia restava invenduta. Per liberarsene i negozianti polverizzarono i prezzi delle cartucce accumulate sugli scaffali, penalizzando i giochi costosi ma qualitativamente superiori. L’effetto collaterale fu che tra i giocatori cominciò a circolare l’idea che, dopo Pac-Man e Space Invaders, i videogiochi non avessero più tanto da offrire.

Sentendo la crisi arrivare, Atari tentò un ultimo colpo di reni con l’Atari 5200, che non rappresentava un salto tecnologico importante rispetto alla 2600. Fu a questo punto che la bolla scoppiò. Essendo ormai chiaro che le vendite di E.T. e della 5200 non sarebbero state all’altezza delle aspettative, Atari tagliò le sue stime di crescita dal 50 al 10 per cento. Di conseguenza gli investitori ritirarono i propri soldi e le azioni del gigante del gaming subirono un crollo del 30 per cento. Entro la fine del 1983 nessun esercente americano avrebbe più voluto sentire parlare di videogiochi. Almeno fino all’arrivo di Nintendo.

Alamogordo, New Mexico (Credits: Taylor Hatmaker)

Forte del successo del NES in Giappone (dove era stato lanciato come Famicom, abbreviazione per Family Computer), il capo di Nintendo Hiroshi Yamauchi fece uno sforzo enorme per vincere la diffidenza dei rivenditori Usa. Nel Natale del 1985 furono vendute a New York 90mila Nintendo Entertainment System, dietro la promessa della casa madre di rimborsare eventuali modelli rimasti in magazzino. Memore del passato, Nintendo esercitò un controllo di qualità molto rigido sui software compatibili con la sua console, anche se al successo dell’azienda giapponese bastavano le creazioni dei suoi geniali sviluppatori: oltre Super Mario Bros. di Shigeru Miyamoto e Takashi Tezuka, e The Legend of Zelda di Miyamoto, anche Metroid, Double Dragon e Castlevania.

Nel 1986 la febbre dei videogiochi era tornata sotto forma di un monopolio Nintendo nel settore dell’home entertaining. Se non bastassero i cereali di Mario e le coperte di Link a dimostrarlo, nel 1988 Super Mario Bros. 3 vendette 17 milioni di copie, per un incasso superiore a quello del film su E.T. La crisi e il successivo boom furono fenomeni centralizzati negli Stati Uniti. In Europa il mercato era parzialmente diverso. Qui da noi, molti più utenti erano entrati nel mondo del gaming grazie a un computer. Anche per questo il NES non riuscì a sfondare, lasciando spazio alla concorrenza, praticamente inesistente oltreoceano, di Commodore Amiga, Atari ST e Sega Master System.

Alamogordo, New Mexico (Credits: Taylor Hatmaker)

Anche se, al di là dell’introduzione creativa di questo articolo, i videogiochi non rischiarono mai di sparire del tutto, viene da chiedersi se una crisi di simili dimensioni possa verificarsi di nuovo. La risposta è no. Il medium è naturalmente molto più integrato nelle nostre abitudini quotidiane e per dimostrarlo bastano le stime di Goldman Sachs, secondo cui nel 2022 gli spettatori di esports saranno più numerosi degli appassionati di football americano. Inoltre c’è molta più consapevolezza intorno ai videogiochi e al loro funzionamento. Ad esempio, negli anni Ottanta il mercato dei cabinati, che era stato messo in crisi dal mercato delle console prima che quest’ultimo crollasse a sua volta, aveva subito un duro colpo dalla sopravvalutazione da parte degli sviluppatori della bravura dei giocatori. Invece si scoprì che i frequentatori delle sale giochi preferivano spendere in modo diverso la paghetta settimanale: pochi minuti di gioco non valevano un quarto di dollaro.

Oggi c’è un’attenzione maggiore all’accessibilità di un’opera. La fase di testing è più lunga, affinata ed inclusiva. Grazie all’accesso anticipato, i feedback dei videogiocatori sono usati come base per migliorare un titolo prima del lancio. Inoltre esistono più livelli di difficoltà selezionabili, a volte intercambiabili nel corso della stessa partita. Certo, a voler essere pessimisti, i videogiochi non si mangiano né si bevono, quindi se la Russia dovesse invaderci polverizzando le nostre ricchezze saremmo costretti a fare a meno delle ore passate con il pad tra le mani. Ma dato che una simile eventualità è (si spera) molto remota, state tranquilli: c’è tutto il tempo per assistere al lancio di altri duecento capitoli di Assassin’s Creed.