La storia delle prime software house italiane

Negli anni Ottanta e Novanta l'Italia ha prodotto tanti talenti e alcuni giochi molto famosi.

Bologna, che si trova a metà strada tra Venezia e Firenze, è una città italiana apprezzata per le sue specialità culinarie, come lasagne e tortellini. Fondata dagli Etruschi, fu una delle città più popolose nel Medioevo, mentre nell’ultimo secolo la crescita del settore industriale ha portato alla nascita di grandi aziende alimentari e tecnologiche. Non sorprende, dunque, che alcuni tra i primi studi di sviluppo italiani siano stati proprio bolognesi.

Nel 1987, Francesco Carlà viveva a Bologna e lavorava come giornalista. Era anche un appassionato di videogiochi, ed era convinto che dovessero essere presi sul serio, come qualunque altra forma d’arte. Soprattutto, Carlà era fissato con un’idea: costruire un mondo popolato da esseri virtuali che reagissero alle interazioni di un giocatore. William Gibson in Neuromante lo chiamava realtà virtuale; per Carlà era il Simulmondo. Questa idea iniziò a trasformarsi in realtà dal momento in cui incontrò Ivan Venturi.

Venturi, che all’epoca era ancora un teenager, aveva già iniziato a programmare, lavorando sul suo Commodore 64 e imparando, da autodidatta, a realizzare avventure sempre più complesse. Carlà con lui si dimostrò essere un severo mentore, incoraggiandolo a migliorare sempre di più. «Mi ha mostrato Cauldron II e mi ha detto «è così che si fanno i videogiochi, altrimenti non andrai da nessuna parte», ricorda Venturi.

Dopo che Venturi dimostrò di aver fatto alcuni progressi, Carlà decise di fondare uno studio di sviluppo: Simulmondo. Carlà era convinto che Simulmondo dovesse rappresentare “il divertimento elettronico italiano per il mondo”, e così le capacità di Venturi vennero impiegate per titoli rappresentativi come Bocce per Commodore 64 (più tardi uscito per Amiga con il nome di Bowls) e Simulgolf. In seguito, Venturi si occupò delle conversioni di Italy’s 90 Soccer e di F1 Manager, quest’ultimo il suo miglior lavoro per Commodore 64 a suo dire. «Adattare un complesso gioco 16-bit per Amiga su un computer a 8-bit non era un compito facile», racconta. «Sono davvero fiero del risultato».

Nel 1989, quando Simulmondo si trasferì in un ufficio vero e proprio, in seguito al Simulmondo Party l’azienda riuscì a ingaggiare diversi nuovi programmatori. Tra di loro c’era Riccardo Cangini, che ricorda le prime idee di Carlà, come Mussolini Age, un gioco ambientato durante gli anni del fascismo. «Mi era stato dato solo il titolo e minime informazioni», racconta Cangini. «Il design non andò oltre qualche ipotesi e alcuni schizzi su carta, non essendoci particolare chiarezza su quale fosse il genere di gioco desiderato».

Un articolo apparso su
Wireframe #53
Tradotto da
Gilles Nicoli e Damiano Gerli
Data della pubblicazione originale
5 agosto 2021
Nel 1990, insieme al programmatore Mario Bruscella, Cangini iniziò a sviluppare uno dei giochi di Simulmondo ricordati con più affetto, I Play: 3-D Soccer. «Carlà ci diede l’idea di un simulatore di calcio in 3D e in prima persona, dove il giocatore avrebbe controllato un singolo atleta sul campo. Certo, l’idea era sua, ma a noi stava il compito di trasformarla in realtà su un Commodore con 64k di memoria!». Come simulazione non aveva una grande giocabilità, ma 3-D Soccer non passò inosservato per via della sua grande ambizione—per non parlare del sistema di protezione draconiano sviluppato da Bruscella. «Conosco persone che stanno ancora cercando di produrre un crack, ma per quanto ne so, ad oggi nessuno ci è riuscito», ricorda il programmatore.

Simulmondo continuò a espandersi grazie a successi come Millemiglia, traslocò in un ufficio a due piani, e si andò affermando come una delle poche software house professionali italiane. Riuscì anche ad autopubblicare i propri giochi, e a siglare accordi di distribuzione con publisher italiani come C.T.O. di Bologna, oltre a diverse aziende europee. Fu in questa fase che Carlà ebbe un’idea: dato che a Bologna vivevano molti autori di fumetti, pensò di portare in vita i personaggi degli albi attraverso il medium videoludico. Il primo accordo di licenza di Simulmondo venne firmato con Tiziano Sclavi per il suo detective del paranormale, Dylan Dog; il gioco venne scritto e diretto da Ivan Venturi.

Dylan Dog: Murderers, pubblicato nel 1992, sviluppato per Amiga, Commodore 64 e DOS, era un’avventura grafica con sequenze arcade. È stato uno dei giochi meglio accolti di Simulmondo, capace di riscuotere un successo internazionale (la rivista inglese Zzap!64 gli diede un 89% come voto). Sfortunatamente, fu anche il titolo che segnò l’inizio della fine per Simulmondo. Alla fine del 1991, Carlà vide il potenziale per un’intera serie di tie-in, e siglò accordi di licenza per personaggi come Martin Mystere (la cui serie non fu mai pubblicata), Diabolik e—in seguito—Spider-Man.

Progettate come semplici “albi a fumetti interattivi”, queste avventure dovevano essere vendute nelle edicole, a un prezzo accessibile, come extra dei fumetti. Un’idea, quella dei “giochi episodici” che anticiperà la simile struttura adottata da Telltale, a metà anni duemila, per le serie The Walking Dead e Sam & Max, tra le tante. Vale la pena notare che gli albi a fumetti miravano anche a combattere la pirateria, un problema non da poco in Italia in quel periodo: i giochi illegali venivano venduti nelle edicole in tutto il paese. L’Italia aveva un settore “professionale” di giochi piratati che nemmeno la legge anti-pirateria del 1993 riuscì a eradicare del tutto.

Una pubblicità degli albi a fumetti interattivi di Simulmondo

Carlà prese poi a progettare anche personaggi originali per dare il via ad altre serie a fumetti, in particolare Simulman, ambientato nel lontano futuro del 2019, con protagonista un affascinante ibrido tra Jim Morrison e Ivan Venturi. Ma l’ennesima serie comportò che Simulmondo iniziò ad andare fuori controllo. A metà del 1992 l’azienda non investiva più in ricerca e sviluppo—la forza lavoro era invece tutta concentrata sul rispetto delle scadenze per le uscite da edicola, che arrivarono a superare le dieci al mese.

Ben presto, come ricorda Venturi, la qualità dei titoli peggiorò rapidamente, e la ripetitività dello sviluppo minò il morale dei programmatori. «Quelli che lavoravano in Simulmondo avevano poco più di vent’anni ed erano affascinati dall’idea che lo sviluppatore di Sim City avesse guadagnato un miliardo; per questo ad alcuni di loro l’idea di lavorare serialmente suonava poco creativa. A loro sembrava di lavorare in fabbrica», dice Venturi.

«I fumetti non portavano nemmeno entrate significative», aggiunge Cangini. «Quando sette-otto mesi dopo arrivano i risultati delle vendite in edicola, ci si rendeva conto di aver fatto tirature in numero eccessivo: avevamo venduto molto meno di quel che si pensava. Era un segmento di mercato completamente diverso rispetto a quello tipico di una software house».

La tensione montò, e diversi sviluppatori se ne andarono, compreso Venturi, nell’ottobre del 1993. Il sogno di un «divertimento elettronico italiano per il mondo», di uno studio che potesse competere con i settori videoludici molto forti di paesi come Francia e Gran Bretagna, era finito. L’abbandono di Venturi fu un colpo particolarmente duro; senza di lui, non rimaneva nessuno a mediare tra lo scontento dei programmatori e le richieste di Carlà. «Ero cresciuto con l’ombra costante dello stress da scadenza, dell’insuccesso, del timore di non farcela», ricorda Venturi. «Era tutto finito».

Nel 1994, dopo aver perso molti dei suoi talenti e saturato il mercato delle edicole, Simulmondo fu costretta a lavorare su progetti più piccoli. Negli anni successivi, si occupò principalmente di prodotti multimediali come un gioco di avventura basato sulla Bibbia e alcuni giochi interattivi per la trasmissione RAI Solletico. L’azienda scomparve dalle scene nel 2000, quando Carlà la chiuse definitivamente. «È stata una fine triste per una grande azienda. Avrebbe potuto sfornare tanti altri talenti per il futuro dell’industria italiana», è il rimpianto di Venturi.

Un paginone pubblicitario di Simulmondo

Non lontano da Bologna si trova Genova, uno dei principali porti del Mediterraneo. La città viene soprannominata “La Superba”. Qui, nel 1991, un’altra software house italiana è nata dalle aspirazioni di un giovane, Christian Cantamessa, un teenager con la passione per il cinema, i videogiochi, e i giochi di ruolo con carta e penna. Questi inizia a fantasticare sull’idea di un’avventura punta-e-clicca dallo stampo cinematografico, ispirata a Lucasfilm e a Cinemaware, con un ladro protagonista che somigliasse a Larry Laffer della Sierra.

Cantamessa non aveva alcuna esperienza in fatto di programmazione, ma ebbe la fortuna di incontrare il graphic designer Massimo Magnasciutti, che aveva lavorato con il programmatore Paolo Costabel a un progetto per il publisher inglese Mirrorsoft. Crimetown Depths, complesso gioco d’avventura per Amiga, finì per essere cancellato prima della pubblicazione a causa di problemi di relativa inesperienza del team e di un publisher poco attento.

Grazie ai soldi investiti nello sviluppo dal padre di Cantamessa, insieme a Lovrano Canepa e successivamente Bruno Boz, i tre iniziarono a lavorare a un prototipo, con lo stesso motore di Crimetown Depths, chiamato Steve Sailing on the Crime Wave. Cantamessa ricorda di aver abbandonato il progetto non appena gli altri scoprirono che non aveva alcuna esperienza di game design; anni più tardi, sarebbe diventato il lead designer di titoli Rockstar come Manhunt e Red Dead Redemption.

Comunque, con Cantamessa fuori dai giochi, Magnasciutti e Costabel continuarono a sviluppare il prototipo, lavorando sotto la sigla Dynabyte, gestita dai due soci Canepa e Boz. Il gioco alla fine uscì col titolo Nippon Safes, Inc. per Amiga e in seguito per PC. Vendette bene in Italia, mentre lasciarono a desiderare le vendite negli altri paesi in Europa. «Per quanto ne so, Nippon Safes è stato pubblicato ufficialmente solo in Italia, per cui non ho idea di cosa sia successo», dice Costabel.

Bruno Boz ricorda: «Avevamo un accordo con un editore, con una potenziale data di uscita fissata per il 1 aprile 1992. Pagammo noi stessi per stampare le scatole, manuali e floppy e poi l’editore praticamente finì per fallire. Non avevamo altra scelta che distribuire le copie del gioco da soli. Avevamo investito un’enorme quantità di denaro ed eravamo tutti estremamente preoccupati su come sarebbe stato recepito il gioco».

Nippon Safes, Inc.

Il loro debutto fu comunque accolto con buone recensioni, perciò Costabel—insieme a Marco Caprelli e altri programmatori—iniziò a lavorare a un sequel ambientato in Russia, intitolato Operation Matrioska. Volendo evitare altri inconvenienti, lo studio si mise alla ricerca di un publisher internazionale. Quando mostrarono una demo a una fiera londinese catturarono l’attenzione di Core Design, che si impegnò a pubblicare il gioco. Core, tuttavia, insistette per cambiare il titolo in The Big Red Adventure, dato che—secondo Caprelli—pensavano suonasse più europeo.

Bruno Boz ricorda anche come il dialogo con Core Design, dopo il rilascio del gioco, fu a dir poco frammentario e, anche se il contratto prevedeva delle provvigioni di vendita, Dynabyte non vide mai un centesimo dopo il primo pagamento. «Pensammo di rivolgerci ai nostri avvocati, ma avremmo rischiato di rimetterci più soldi di quanti ne avremmo recuperati».

In ogni caso, grazie all’accordo di pubblicazione, The Big Red Adventure sarebbe diventato il più grande successo europeo di Dynabyte, e uno dei giochi d’avventura italiani più apprezzati di sempre. Il finale suggeriva l’arrivo di un terzo episodio, ambientato in Oriente, che però, ricorda Costabel, non venne mai sviluppato. Caprelli ricorda che Core non era interessata nemmeno al loro altro progetto: una avventura western cartoonesca a meta tra Disney e Sergio Leone. «Gli sembrava troppo infantile», spiega. «In quel periodo, con la PlayStation, un gioco doveva essere in 3D, altrimenti non avrebbe mai visto la luce del sole».

Tequila & Boom-Boom, uscito nel 1995, sarebbe stato l’ultimo gioco di Dynabyte. Lo studio aveva concordato la distribuzione con Sacis, azienda nata nel 1955 e all’epoca proprietà della RAI, aveva iniziato a interessarsi del mercato videoludico a metà anni 90 distribuendo, tra gli altri, anche titoli di Ubisoft come Rayman. Sfortunatamente, Sacis si rivelò una scelta del tutto sbagliata: a quanto pare, la società non aveva una reale conoscenza del mercato dei videogiochi.

L’anno seguente problemi interni alla compagnia portarono a una scissione: Costabel sarebbe andato a lavorare sul pionieristico film in computer grafica Final Fantasy: The Spirits Within, Caprelli invece avrebbe proposto un ultimo progetto, Blood & Lace, a un altro publisher.

Una pagina pubblicitaria di Big Red Adventure

Si trattava di un’avventura gotica con quick time events che avrebbe dovuto usare lo stesso motore grafico dei precedenti titoli Dynabyte, ma venne invece convertito in un action-adventure tridimensionale in stile Tomb Raider. Uscito nel 2001 per Giunti Multimedia, sparì presto senza lasciare traccia. Costabel adesso lavora a Sony Santa Monica, mentre Caprelli è diventato brand ambassador di Ubisoft in Italia.

Negli anni Novanta dall’area di Genova emersero così tanti talenti che la si iniziò a chiamare, con un gioco di parole, “Basilicon Valley”. Rapallo, una tranquilla cittadina turistica ligure, divenne la base per uno degli studi più importanti e più longevi in Italia: Trecision, fondata da Pietro Montelatici, Edoardo Gervino e Gabriele Pompeo. Il primo titolo sviluppato dai tre fu Profezia, un’avventura uscita nel 1991 per Amiga, pubblicata dalla Genias di Riccardo Arioti. A seguirlo, ci fu il rompicapo Extasy, programmato in MS-DOS dal nuovo arrivato Fabrizio Lagorio e pubblicato da Simulmondo.

Proprio Lagorio e Montelatici vennero poi contattati da Carlà per lavorare al già citato gioco basato sui fumetti di Diabolik. «Avevo il presentimento che l’accordo avrebbe portato a un nulla di fatto, e in effetti andò proprio così», dice Lagorio. «Carlà disse che lo sviluppo procedeva troppo lentamente e che l’accordo era annullato. Non ricevemmo alcun compenso». In seguito all’addio di Pompeo, Trecision decise di trasformare il progetto in qualcosa di diverso, senza la licenza di Diabolik, e pubblicarlo in versione shareware.

Lo studio fu sorpreso dal successo del gioco, chiamato In the Dead of Night. «Iniziammo a ricevere tutta questa valuta internazionale, non avevamo nemmeno voglia di andare a cambiarla in lire!», ricorda Lagorio. Lo studio si rese conto allora che il mercato italiano era stagnante, e decise di trovare un publisher internazionale per il gioco successivo. «Ci rispose Stewart Bell di International Computer Entertainment (ICE)», racconta Gervino. «Mandammo un prototipo di un’avventura in prima persona, e loro lavorarono al design, mentre noi ci occupammo del motore grafico. A volte sembrava di essere quasi loro dipendenti».

Il progetto, un’avventura punta-e-clicca intitolata Alien Virus, venne pubblicata sia in Europa sia negli Stati Uniti, non senza incontrare alcuni problemi. «Ci venne detto che il gioco era stato ritirato dai punti vendita americani perché la copertina fu tacciata di razzismo», dice Lagorio. «Ma a noi non era stata comunicata alcuna modifica rispetto alla box art europea». Stuart Bell nega che l’evento sia mai successo. La collaborazione con ICE, pur partita col piede sbagliato, proseguì comunque per la loro seconda avventura, Ark of Time, ma a Trecision erano stanchi dei problemi causati dal publisher e decisero di trovarne un altro per il loro nuovo progetto.

Una pagina pubblicitaria di Nightlong: Union City Conspiracy

Nightlong: Union City Conspiracy, pubblicato da Team17 nel 1998, viene spesso considerato il miglior gioco di Trecision, e il più avanzato tecnicamente. Era un’avventura cyberpunk con personaggi 3D animati su sfondi 2D, che costò molti soldi per via della localizzazione e del doppiaggio necessari a una pubblicazione internazionale, ma ebbe buoni riscontri di vendita.

Alla fiera ECTS di quell’anno ci fu un incidente, ricorda Lagorio, con Bell che piombò nello stand di Hasbro/Team17, dicendo che il gioco fosse in realtà Alien Virus 2. «A quanto pare, senza dirci nulla, Trecision ha deciso di usare il design per il seguito di Alien Virus, su cui avevamo lavorato insieme, rivendendolo a Hasbro. Così il publisher ha tolto tutte le copie dallo stand». Cosa sia successo in seguito, però, non è chiaro.

In ogni caso, i rapporti tra Trecision e Team17 arrivarono alla conclusione, tanto che l’azienda genovese si trovò in una fase di stallo in cui Montelatici, Gervino e Lagorio cercavano di capire come muoversi. Grazie a una joint venture con un fondo d’investimento e la fusione con lo studio di Napoli Pixelstorm, Trecision diventò un hub per i più promettenti sviluppatori italiani. «Nel 2000 eravamo senz’altro la più grande software house italiana—non potevamo che provare a crescere ancora di più», dice Montelatici.

Moltelatici parla di quel periodo con entusiasmo ma anche un po’ di rammarico. «In Trecision entrò molta gente di talento, come Rick Gush, ex sviluppatore di Westwood Studios, e Dino Dini, famoso per Kick Off. Molti progetti rimasero nel limbo, perché non riuscivamo a trovare un publisher. Provammo a vendere il gioco di calcio di Dino Dini a Microsoft—ci invitarono anche al loro campus, ma alla fine ci dissero che preferivano aspettare il secondo anno di Xbox, visto che il primo non era andato molto bene». Ma l’anno successivo (2003) Trecision già non esisteva più.

Watchmaker, l’ultima avventura grafica dello studio ligure uscita nel 2000, vendette bene, ma non venne acclamato ovunque come Nightlong. Negli anni successivi Trecision provò a restare a galla producendo giochi mobile e per PlayStation, ma alla fine, quando un accordo per due titoli con il publisher francese Cryo non andò in porto, Moltelatici ritenne di non poter far altro che chiudere lo studio.

Una pagina pubblicitaria di Alien Virus

«Non rimpiango quella decisione», dice. «Non volevo che i nostri sviluppatori rimanessero senza stipendio. Avremmo forse potuto andare avanti per un altro paio di giochi, ma non avevamo alcuna direzione in cui andare». Montelatici abbandonò il settore videoludico pochi anni dopo, mentre Lagorio sviluppa ancora videogiochi con Perpetuum Media. Gervino è felicemente in pensione.

Al di là dei giochi, Simulmondo ha lasciato un’altra eredità: gli studi fondati dai suoi ex dipendenti. Dalle ceneri dell’azienda ne sono emersi due importanti: il primo è Light Shock, fondato nel 1994 da Massimiliano Calamai e Francesco Iorio, che produsse tre titoli nei suoi due anni di vita, il brawler uno-contro-uno Pray for Death per DOS, oltre a Fighting Spirit, e il gioco d’azione Black Viper, entrambi per Amiga.

Il secondo è Artematica, con base a Chiavari, fondato da Riccardo Cangini dopo i suoi anni alla Simulmondo. Il primo progetto dello studio è stato Druuna: Morbus Gravis, un’avventura basata sul fumetto di Paolo Eleuteri Serpieri, la cui idea risaliva addirittura agli anni Ottanta. Cangini continuò a dedicarsi alle avventure anche in seguito, quando altri ex programmatori di Simulmondo come Mario Bruscella e Massimiliano Calamai si unirono ad Artematica. L’ultima avventura dello studio è Julia: Innocent Eyes, pubblicata da Warner Bros. nel 2010.

Tutte queste storie prese insieme raccontano un settore nascente ostacolato dalla pirateria e dalla scarsità di finanziamenti, elementi che in parte spiegano per quale motivo il settore videoludico italiano abbia faticato così tanto e così a lungo. Nonostante tutto, l’Italia è riuscita a esprimere talenti come Cantamessa e Venturi, e più di recente, con corsi accademici meglio strutturati e fondi governativi, le cose stanno cambiando per il meglio. Studi come Milestone e Stomind hanno prodotto giochi di alto profilo come MotoGP 21 e Remothered: Broken Porcelain, o anche Ubisoft Milano con Mario + Rabbids Kingdom Battle.

Gli studi italiani hanno incontrato tante difficoltà negli anni Ottanta e Novanta, ma ora il futuro non può che riservare sorprese positive.