Le calcolate vendette di Children of the Sun

Un gioco di prospettive e capovolgimenti.

La premessa è questa: La Ragazza imbraccia il suo fucile da cecchino, pronta a vendicarsi del Culto che le ha portato via l’infanzia e la famiglia.

A sentirsela raccontare così, e ovviamente senza aver letto la descrizione del prodotto su Steam o sul sito del publisher Devolver Digital, verrebbe naturale immaginarsi un gameplay a base di azione sfrenata e litri di sangue, o uno sparatutto tattico alla Sniper Elite.

Ho sperimentato io stesso questa dissonanza: mentre pranzavamo ho descritto la trama del gioco ad alcuni miei amici, e nessuno di loro ha intuito che stavo parlando loro di un puzzle game.

Certo, se avessi invertito l’ordine dei fattori dichiarando subito che il gioco in questione è un rompicapo, il risultato sarebbe stato molto diverso: le etichette hanno il loro peso, e nel mondo videoludico questa è cosa arcinota. Io stesso non sono esente da pregiudizi, e se mi parlate di puzzle game, la mia mente corre ai colori tenui di Layton, o alla spiritosa genialità di Portal.

Sapevo cosa stavo installando, eppure le mie aspettative si sono rivelate comunque poco centrate; sangue e frenesia, dicevamo: mentre di cervella ne ho effettivamente sparse in abbondanza, mi sono presto reso conto che l’azione sarebbe stata da misurare al millimetro.

Children of the Sun (Fonte: press kit)

Questione di stile

Dietro l’estetica caustica di Children of the Sun, tutta vendetta, colori fluo e feroce musica rock, ad aspettare il giocatore è infatti un’esperienza che farebbe la gioia di qualunque appassionato di trigonometria.

La strage compiuta dalla Ragazza è un susseguirsi di spettacolari ma calcolatissimi rimbalzi, frutto dei poteri telecinetici di cui gli esperimenti del Culto hanno dotato la nostra rabbiosa eroina: ogni livello va affrontato con un singolo proiettile, di cui assumiamo il controllo una volta che questo lascia la canna del fucile.

La sfida diventa allora trovare la traiettoria per arrivare al prossimo nemico, e così via fino alla totale eliminazione degli avversari; compito tutt’altro che banale, perché i cultisti senza volto che siamo chiamati a eliminare sono spesso nascosti all’interno di edifici o in luoghi elevati che può essere difficile raggiungere dal basso, o anche protetti da pesanti armature che richiedono una lunga rincorsa per essere sfondate.

Non scontata è anche la matrice estetica di Children of the Sun, il cui debito più evidente è senza dubbio verso la Grasshopper di Suda51: l’universo ludico in cui veniamo letteralmente sparati è chiassoso, irriverente e brutale. La California di gioco è un deserto allucinato di colori impossibili e poteri inquietanti, la cui unica redenzione possibile è la morte, da impartire preferibilmente in grande stile. Tutto molto riuscito, dalla colonna sonora alla grafica, efficacissima nella sua grezza semplicità: per esempio, l’aspetto rudimentalmente poligonale dei nemici, che come già detto appaiono privi di connotati.

Quella di disumanizzare in questo modo i nemici è una scelta interessante sotto più punti di vista: da un lato restituisce la furia della protagonista, per la quale i membri del Culto non sono che pedine da rimuovere per arrivare a vendicarsi del Leader; tuttavia, in una storia di vendetta sarebbe lecito aspettarsi una grande attenzione alla caratterizzazione dei personaggi, un certo pathos. Invece in Children of the Sun conosciamo gli attori solo con la loro etichetta: il Leader è il Leader, la Ragazza è la Ragazza, il Culto è il Culto. Tanto basta: più elementi di una formula geometrica che personaggi di un racconto.

Children of the Sun (Fonte: press kit)

Che tu sia per me il proiettile

È come se una patina di frustrazione ricoprisse Children of the Sun.

Quella della Ragazza lanciata all’inseguimento dei suoi aguzzini, certo, ma è probabile che anche chi gioca finisca a tratti per irritarsi: capita di dover ripetere un quadro molte volte, continuando a sbattere contro una ringhiera alla cieca ricerca dell’ultima testa da far esplodere.

Il gioco in realtà non è particolarmente difficile e non si trascina mai più a lungo del necessario: io ho impiegato circa quattro ore a concluderlo, tempo che parrebbe essere nella media, ma stando ai commenti su Steam è possibile superare i quasi trenta quadri di gioco in appena due ore.

Un gioco conciso, quindi, che preme però sulla sua rigiocabilità: in base al tempo e al percorso compiuto per completare un livello ci verrà assegnato un punteggio che sarà messo a confronto con quello degli altri giocatori. Se si vuole fare bella figura bisognerà quindi trovare il modo per ottimizzare il più possibile i nostri movimenti. Anche per ottenere i trofei di gioco è necessario compiere azioni specifiche e non sempre facili da intuire.

A testimoniare come la ripetizione sia ampiamente prevista dallo sviluppatore, i nemici uccisi nei nostri precedenti tentativi sono marcati da numeri che ci indicano l’ordine con il quale li abbiamo eliminati in precedenza; un aiuto utile a rintracciare i bersagli nel viola acido del mondo della Ragazza.

Children of the Sun (Fonte: press kit)

Rimbalzare da un lato all’altro delle mappe e raccogliere informazioni sulla posizione dei nemici e sui percorsi per raggiungerli tutti risulta in effetti molto appagante, specialmente negli ultimi quadri, di notevole complessità.

Ho capito gradualmente che per godersi al meglio Children of the Sun bisogna lasciarsi portare un po’ a spasso, perdere un po’ il controllo. Non è quello che sono solito aspettarmi da un puzzle game, in cui in genere viene premiata la capacità di intuire subito il percorso logico richiesto.

Essendo l’utilizzo di un singolo proiettile il meccanismo fondamentale del gioco, questa insistenza sul trial & error mi è sembrata a tratti paradossale. Personalmente avrei preferito poter progettare in misura maggiore i miei viaggi balistici prima di intraprenderli, anche perché all’inizio dei livelli è possibile muovere la Ragazza lungo un asse orizzontale predefinito; questa dinamica mi è parsa però poco sfruttata, visto che solo in una manciata di quadri ho trovato necessario far fare più di qualche passo alla Ragazza, e in genere il percorso a disposizione è molto breve, perennemente bloccato da alberi, pali o altri classici impedimenti.

Forse però è proprio la tensione tra le aspettative di chi gioca e quello che il gioco si scopre essere a rappresentare l’aspetto più interessante di Children of the Sun. I capovolgimenti di fronte, non solo balistici, a cui il gioco di René Rother sottopone il giocatore mi hanno spaesato, divertito e infastidito, portandomi a riflettere più che sulla chiave di un rompicapo, su cosa un rompicapo possa essere.

Sinceramente a volte il gioco mi è sembrato ingiusto a lanciarmi nella mischia così, senza preamboli e senza una soluzione plausibile, anche se come dicevo non è molto difficile. Non mi era mai capitato prima di pensarlo tanto spesso mentre giocavo un puzzle game (o almeno, un puzzle game ben riuscito come questo), in cui il fair-play nei confronti dell’utente è fondamentale, pena perderne completamente la fiducia. Ma Children of the Sun si pone volontariamente in opposizione al genere in cui è collocato.

Children of the Sun (Fonte: press kit)

Ecco, tornando alla geometria: più che capire quale formula applicare al problema, Children of the Sun chiede di capire quali siano i dati necessari, anche fortunosamente.

A suo modo anche questa è una rottura rispetto a un genere tipicamente innocuo, pacifico, in cui il giocatore è solito confrontarsi con problemi magari di notevole complessità logica o morale ma spesso statici, già apparecchiati. Rottura a cui la violenza del gioco partecipa con tutta la sua energia estetica e ludico-narrativa: di solito nei puzzle game il giocatore tende a subire la violenza, se presente, e la ragione è lo strumento con cui supera le sfide presenti: questo è evidente anche nei rompicapo che popolano gli horror fin dai tempi di Resident Evil.

Le cruente uccisioni-sfide logiche di Children of the Sun hanno pochi termini di paragone nel genere—tra cui si potrebbe forse inserire Superhot, che ne è in un certo senso lo specchio a livello di meccaniche—e oltre a vendicare La Ragazza, vendicano un’infinità di protagonisti inermi.

In chiave di rottura si può collocare anche la rinuncia al carisma di personaggi che trascendano un preciso stereotipo, la mancanza insomma di un mistero che vada oltre quello pratico, prettamente geometrico; tuttavia, secondo me questa scelta indebolisce troppo il versante narrativo del gioco.

Di nuovo, quanto a stile nulla da obiettare: la storia della Ragazza è raccontata una manciata di secondi alla volta, in spezzoni animati privi di dialogo distribuiti prima dei livelli di gioco secondo un criterio tematico che ricorda il contrappasso dantesco. La loro presentazione è buona, ma il narrato non riesce a liberarsi dai cliché che è scontato aspettarsi da una revenge story a sfondo religioso, e se gli abusi a cui assistiamo sono senz’altro funzionali a giustificare la furia omicida della protagonista, la trama non risulta particolarmente incisiva. Peccato, perché in un’opera che spinge tanto sul paradosso della sua identità, sul sentirsi proiettati in una direzione e scoprire poi che il bersaglio è alle proprie spalle, una maggiore coesione tra gameplay e narrazione avrebbe contribuito a elevare un’esperienza che rimane comunque appagante e ben misurata.