Il videogioco nazionale è spesso definito attraverso la sua dimensione testuale, secondo la quale le iconografie e le narrazioni, ma anche le meccaniche e la giocabilità di alcuni videogiochi sarebbero in grado di veicolare aspetti della cultura nazionale e valorizzarne il patrimonio. In un saggio dedicato all’industria videoludica italiana, Enrico Gandolfi (2015) auspica l’emergere di una consapevolezza del videogioco come oggetto culturale (si parla metaforicamente di un level up) e dell’avvento di un Made in Italy videoludico coeso. Secondo Gandolfi l’Italia avrebbe importante visibilità proprio attraverso il videogioco, particolarmente in termini di personaggi e paesaggi che popolano gli scenari delle produzioni internazionali (p. 305). La struttura modulare ed episodica dei videogiochi si presta infatti alla creazione di collage paesaggistici in generi come i “picchiaduro” e i giochi di corse. Ne sono un esempio il porto di Genova in Street Fighter Alpha 2 (1996) [Fig. 20] e Piazza del Campo, a Siena, in Gran Turismo 5 (2010) [Fig. 17]. Altri, come i giochi d’azione e di avventura, sono divisi e strutturati in diverse aree di gioco e giustificano la natura miscellanea delle ambientazioni attraverso le narrazioni itineranti dei loro protagonisti. Ad esempio, Il teatro La Fenice di Venezia fa da sfondo ad uno dei livelli più famosi in Tomb Raider 2 (1997) [Fig. 18]. L’italianità di questi giochi non è definita attraverso i loro processi di produzione, ma per il capitale culturale impiegato e rappresentato in questi testi. In particolare, la rappresentazione del paesaggio sembrerebbe contenere il potenziale per la promozione di un immaginario nazionale del gioco.

In linea con questo approccio, il progetto IVIPRO (Italian Videogame Program) fornisce una mappa dedicata alla presenza di location italiane nei videogiochi. A sponsorizzare il progetto sono principalmente le film commission regionali, la cui missione è quella di incrementare la produzione audiovisiva sui territori locali, rafforzando ulteriormente la connessione tra cinema e videogioco. Tra le destinazioni più popolari, compaiono il Lazio (54 titoli), il Veneto (44) e la Toscana (39), mentre tra le regioni meno virtualmente visitate ci sono le Marche (2), la Puglia e la Basilicata (3), confermando la visibilità di alcuni luoghi cristallizzati nell’iconografia digitale italiana. Da questa osservazione emerge però anche un primo problema: quello di quale Italia sia rappresentata in questi testi, in quanto tale rappresentazione sembra replicare alcune delle asimmetrie geopolitiche che caratterizzano il territorio nazionale, stabilendo una gerarchia di visibilità socio-economica tra centro e periferia, generalmente reiterando immagini del paese già note ed escludendone delle altre. Il problema della visibilità sembra anticipato da IVIPRO che affianca a questa mappa un Database Narrativo contenente informazioni storiche e culturali su location italiane ancora inesplorate, ora navigabili attraverso una cartina geografica dell’Italia che offre schede con suggerimenti sui loro possibili impieghi videoludici. Ad esempio, tra i punti d’interesse della Sardegna (rappresentata solo in 6 titoli) spicca il Carnevale di Mamoiada. La descrizione fornita nella scheda ricalca topoi di antichità e tradizione radicati nell’immaginario stereotipico sull’isola e che sono stati spesso strumento di mediazione di sardità in Italia e all’estero, particolarmente nel cinema

La rappresentazione del videogioco nazionale, in sostanza, non solo rispecchia gerarchie di visibilità intrinseche all’organizzazione geopolitica del paese, ma implica anche un processo di stereotipizzazione del locale che ne oscura la specificità storico-culturale. Higson (1989, p. 44) sottolinea come la “proclamazione” di un cinema nazionale dipenda sempre da un processo di colonizzazione interna, e quindi dall’appiattimento delle differenze che ostacolano la creazione di una base culturale comune. Secondo Douglas Dow (2013) invece, la decontestualizzazione di dettagli storici e la presenza di incongruenze non solo fanno parte dei processi appropriativi e creativi del videogioco, ma sono in realtà funzionali alla creazione di un’estetica relazionale tra l’oggetto rappresentato e il suo simulacro virtuale. In questa prospettiva, le molteplici incongruenze architettoniche presenti in Assassin’s Creed II sarebbero a servizio di un processo di riconoscimento tra la città attuale e la sua simulazione storica. La Firenze rinascimentale del gioco è infatti innestata ad elementi architettonici risalenti a momenti storici successivi a quello del XV secolo che gli fa da sfondo, avvicinandola invece alla sua iconografia contemporanea. Per Dow, la virtualità della Firenze di Assassin’s Creed II potrebbe quindi ispirare una nuova ermeneutica del luogo storico come “simulacro” (Baudrillard 1993), in quanto rappresentazione artificiosa di un referente già originalmente artificiale. Assassin’s Creed II quindi faciliterebbe la comprensione di Firenze non come città storica, ma come spazio contemporaneo “immaginato”: come un collage di edifici appartenenti a stili ed epoche differenti, collocati gli uni accanto agli altri non secondo principi di fedeltà e coerenza storica, ma secondo quelli di un oggetto estetico volto a creare una “impressione” del fenomeno storico

In questo senso, Assassin’s Creed II favorirebbe una lettura critica del patrimonio culturale storico come artefatto intrinsecamente incoerente, frutto della costante negoziazione tra visioni del presente e del passato atta a simulare la percezione estetica intesa in una determinata epoca. Per estensione, potremmo dire che se il patrimonio culturale rappresentato nel videogioco partecipa alla “comunicazione” della cultura nazionale, il rifiuto di un paradigma storico e la presenza di intenzionali anacronismi e inconsistenze nella simulazione rivelano la natura artificiale del concetto stesso di nazionalità. In questo senso, la nazionalità del videogioco rivela la propria natura come simulacro tanto quanto la Firenze di Assassin’s Creed. L’attenzione rivolta alla coerenza e al dettaglio dell’oggetto rappresentato rispecchia quella che Adrienne Shaw (2015) definisce la “tirannia del realismo”. In questa prospettiva la qualità della rappresentazione videoludica è generalmente valutata in base alla sua accuratezza (Uricchio 2005) o al suo grado di finzione (Elliot e Kapel 2013), ma comunque sempre in relazione alla fedeltà sensoriale rispetto al fenomeno rappresentato. Secondo Shaw tale feticismo sensoriale nasconde il valore politico del videogioco. La rappresentazione nel videogioco, in quanto medium interattivo e “ergodico” (Aarseth 1997, p. 1), non può essere interrogata solamente sulla base delle immagini da esso prodotte, ma deve invece essere analizzata attraverso l’agency del giocatore, ovvero la sua capacità di influenzare e determinare il fenomeno rappresentato (Shaw 2015, p. 21)
Una simile tensione ideologica tra immagine e gioco attraversa la saga di Assassin’s Creed, in cui il protagonista Desmond Miles è rapito dalla multinazionale Abstergo e costretto ad entrare all’interno di un dispositivo per la realtà virtuale chiamato Animus. Esso consente l’accesso alla memoria ancestrale contenuta nel DNA dell’utente, che eccede l’individuo e ne raccoglie geneticamente l’intera genealogia. Tale macchina virtualizza e rende navigabili le vite degli antenati dell’utente che la controlla. Il gioco dunque si colloca su un piano metanarrativo e—come in una scatola cinese—l’esperienza distale di Desmond, il quale inabita il corpo dei propri avi per riviverne il passato, rispecchia quella del giocatore che prende possesso del protagonista per guidarlo attraverso gli episodi del gioco. La componente metacritica del gioco emerge allineando due livelli di interfacce: quella operata da Desmond nell’Animus, e l’interfaccia videoludica di Assassin’s Creed II utilizzata dal giocatore. Come l’Animus, Assassin’s Creed si presenta come un mero database storico, nascondendo la propria veste ideologica sotto lo spettacolo del realismo sensoriale. Secondo Shaw infatti, l’Animus non è solo un’interfaccia di gioco ma anche un’interfaccia storica, uno strumento che reifica la selezione dei fenomeni rappresentati (e quindi di quelli omessi) offuscandone l’aspetto ideologico. La selezione di ciascun episodio non è guidata da un principio narrativo-iconografico—come accade invece nel cinema—ma è piuttosto operata in relazione alla sua “giocabilità” (Shaw 2015, 13). L’interfaccia di gioco di Assassin’s Creed, come quella dell’Animus, include solo gli elementi compatibili con i limiti materiali della macchina e con la struttura dell’esperienza progettata dal designer. Le interazioni concesse al giocatore sono finalizzate alla creazione di meccaniche di gioco e di loop di sfide e ricompense, i quali motivino la permanenza del giocatore all’interno del mondo virtuale. Assassin’s Creed, e più in generale il medium videoludico, non producono delle rappresentazioni a servizio del fenomeno rappresentato (sia esso il patrimonio culturale, o il concetto di nazionalità ad esso connesso), bensì strumentalizzano quest’ultimo in funzione della contingenza ludo-tecnologica che lo rappresenta.

L’analisi delle meccaniche di gioco meglio evidenzia il principio di giocabilità che ne governa l’apparato ideologico