Morire in continuazione

Il ruolo della pulsione di morte nell'esperienza videoludica.

Nel 2011 migliaia di giocatori sedevano di fronte al loro televisore con le mani strette sul controller fino a far diventare bianche le nocche. Ogni volta che provavano—senza riuscirci—a sconfiggere Smough e Ornstein in Dark Souls, le parole YOU DIED apparivano sullo schermo. C’erano in gioco rabbia e frustrazione, ma anche tanta determinazione. Perché chi gioca insiste pur morendo in continuazione? Esiste un bisogno inconscio di questo atto di ripetizione che consiste nel morire e poi provare ancora? Nel 1920 lo psicanalista Sigmund Freud pubblicò uno studio intitolato Al di là del principio del piacere, nel quale indagava il mondo in cui l’Io condiziona la percezione del piacere e della paura. Può essere tutt’altro che immediato trovare una connessione tra questa idea e i videogiochi, ma ci sono più punti in comune di quanto possa a prima vista sembrare. Lo studio sosteneva che molte persone sviluppano una coazione a ripetere, rivivendo le stesse situazioni a proprio discapito e avendo come obiettivo finale la distruzione dell’idea del Sé. Detto altrimenti, «devi distruggere le tue creazioni e le vecchie versioni di te stesso ogni giorno per migliorare», come dice Cezary Skorupka, level designer di SUPERHOT.

Freud iniziò a costruire questa teoria ascoltando molti dei suoi pazienti descrivere il modo in cui rivivevano i traumi della loro infanzia. I pazienti rimettevano in scena nella loro mente un episodio del passato, sperando in un esito diverso—anche se cambiare l’esito di un evento passato è impossibile. Freud allora cominciò a chiedersi cosa ci spinga a rivivere momenti traumatici del passato, e sviluppò l’idea della pulsione di morte, detta anche Thanatos, dal nome della divinità greca della morte. Sono tre le caratteristiche fondamentali della pulsione di morte: l’aggressività, la propensione al rischio e la ripetizione di esperienze traumatiche. Si tratta di tre elementi che potrebbero suonare familiari: l’aggressività la troviamo negli shooter, numerosi rischi si corrono saltando qua e là sfidando le leggi della gravità, e l’atto di ripartire dopo un game over può essere visto come la ripetizione di un trauma. Da un certo punto di vista, non è una maniera sana di imparare e migliorarsi. Non solo la ripetizione rafforza il nostro intento, ma ci fa interiorizzare i nostri errori. Matthew Barr, docente alla University of Glasgow, è convinto che i videogiochi ci diano la libertà di fallire. «Fallire quando conta davvero è qualcosa che nessuno vorrebbe sperimentale», dice. Al contrario, secondo Barr nei videogiochi si può fare “pratica di fallimento”. Nei videogiochi questo fallimento spesso coincide con la morte.

Possiamo riconoscere la pulsione di morte già in vecchi giochi come Pac-Man, in cui chi gioca muore ripetutamente cercando di stabilire un punteggio più alto. Nel corso degli anni, interi movimenti e sottogeneri hanno fatto della pulsione di morte un principio cardine—speedrunning, no-hit runs, 100% completions. Tutte queste modalità hanno una cosa in comune: morire di continuo, e raggiungere la totale padronanza di un gioco attraverso la ripetizione. I roguelike sono l’incarnazione di questo principio, dato che il concetto di permadeath sta alla base del genere. Matt Dabrowski, sviluppatore di Streets of Rage, è d’accordo: «Nei roguelike nel corso di una partita chi gioca accumula ogni sorta di abilità e di oggetti nel suo inventario», dice. «Le frequenti morti portano a ripartire da zero ogni volta, più volte. La sensazione è quella di non avere alcun legame con ciò che è successo in precedenza». Qui, di nuovo, troviamo un’autodistruzione perpetrata attraverso la ripetizione. «Più volte muori», dice Dabrowski, «più volte perdi, migliore sarà la tua conoscenza delle meccaniche di gioco, dei tempi, della struttura dei livelli, e così via».

I creatori di SUPERHOT hanno portato l’idea ancora più in là con il sequel SUPERHOT: MIND CONTROL DELETE. «Abbiamo il protagonista del primo gioco rinchiuso in una “hacker room”, e costretto a rivivere momenti traumatici in una serie di enigmatici livelli», racconta Skorupka. «Ciò significa distruggere ogni versione dell’eroe, accettando il fallimento per ottenere la libertà». In Al di là del principio di piacere, Freud racconta di aver passato alcune settimane vivendo insieme a una coppia e a loro figlio, e di aver notato come il bambino avesse inventato un gioco. Lanciava un giocattolo sotto i mobili o lontano dal suo lettino e diceva “fort” (“via”). Poi lo recuperava ed esclamava con allegria “da” (“qui”). Era chiaro che il gioco si basava sul soddisfacimento pulsionale—creare un momento di paura e di sfida in modo da provare poi gioia per il ritorno del giocattolo. Freud poneva la domanda: “Come può accordarsi col principio di piacere la ripetizione sotto forma di giuoco di questa penosa esperienza?”. Una risposta trovata dallo psicanalista era: “All’inizio era stato passivo, aveva subito l’esperienza; ora invece, ripetendo l’esperienza, che pure era stata spiacevole, sotto forma di giuoco, il bambino assumeva una parte attiva”. In questo modo il bambino ha imparato a controllare e a padroneggiare le sue reazioni emotive attraverso il gioco.

SUPERHOT: MIND CONTROL DELETE (Fonte: press kit)

Applichiamo questo meccanismo ai videogiochi prendendo come esempio Super Mario Bros. Per vincere chi gioca deve superare ogni livello, e questo con ogni probabilità lo porterà a morire ripetutamente. L’asta della bandiera alla fine dei livelli è “la gioia”, e per arrivarci bisogna prima conoscere quali sono i pericoli e in che modo è possibile evitarli. Il livello si apre in uno stato passivo, e si articola sempre nello stesso loop programmato. È solo in seguito a ripetute azioni “attive” e all’accettazione della morte che si può acquisire quella conoscenza. A questo proposito Freud descrive un “una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente”. Gli speedrunner si costringono a sbagliare e a rischiare tanto pur di trovare il modo più veloce per raggiungere la fine di un gioco. Con ogni morte prendono parte attiva in un percorso che attraverso l’accettazione li porterà alla ricompensa costituita dall’obiettivo prefissato.

La pulsione di morte freudiana aveva bisogno di un contrappeso. Thanatos ha spianato lo strada a Eros—la pulsione di vita. Eros è un bisogno di base per la sopravvivenza, e Freud credeva che l’uno non sarebbe esistito senza l’altro. Ciò lo portò ad affermare che “la meta di tutto ciò che è vivo è la morte”. Nei giochi però la morte non è mai definitiva. È parte del ciclo: nei giochi si può ricominciare tutte le volte che si vuole. La morte prima o poi è sconfitta, e si sopravvive fino alla fine. Il completamento di un gioco, per molti giocatori, equivale alla fine. Seguendo la teoria di Freud, se la meta della vita è la morte, la morte rappresenta uno stato in cui non ci sono più tensioni o stimoli che incidono sulla nostra psiche. Una volta raggiunta la fine l’attivo diventa nuovamente passivo e raggiungiamo uno stato di pace.

Potremmo vedere questa padronanza acquisita attraverso morti ripetute come un modo per deviare in modo aggressivo emozioni e traumi dalla vita al videogioco. «Dark Souls a livello tematico è un gioco sulla morte, ma a livello di meccaniche è anche un gioco sul morire, poiché il giocatore impara dai propri errori e riesce a fare qualche piccolo progresso», dice Barr. Dubita che la forza trainante sia l’idea dell’autodistruzione, ma crede che i giochi creino un desiderio di risolutezza. «Giocare significa senz’altro padroneggiare. Nell’educazione l’apprendimento si basa sul ricevere un feedback per le proprie azioni, fino al raggiungimento di un certo livello di prestazioni e di competenza. Per molti versi i giocatori fanno pratica con il metodo scientifico». La pulsione di morte, che permetteva ai pazienti di Freud di guarire, consente ai giocatori di applicare questioni esterne a problemi pratici, spesso con il risultato di poter esportare le abilità acquisite nel “mondo reale”. Come spiega Barr, «possiamo dotarci degli strumenti necessari a tirarci su quando le cose vanno male. Vale la pena ricordare che i videogiochi, in un certo senso, sono “reali”. Mentre giochiamo accendiamo neuroni veri, esercitiamo abilità vere. Il trasferimento delle abilità dal virtuale al reale ha perfettamente senso». Dabrowski è d’accordo. «Il fallimento nei videogiochi è un aspetto marginale, ma nel mondo reale si possono facilmente trovare settori nei quali le abilità acquisite nei giochi trovano un’applicazione. Streets of Rogue incoraggia chi gioca a elaborare strategie creative—e chi gioca tende a gravitare intorno a queste strategie ogni volta che muore».

Karl Menninger ha esaminato teorie simili nel suo libro Man Against Himself del 1938. Ha analizzato le idee di autolesionismo e autodistruzione. Se pensiamo a ogni tentativo di completare un gioco come a una forma di ripetuta autodistruzione, possiamo avere una lettura differente di un passaggio del suo libro: “Il sintomo (la distruzione) è allora un tentativo di auto-guarigione, o quantomeno di auto-conservazione”. Possiamo riconoscere questa teoria in Dark Souls. Quando il giocatore arriva in una nuova zona non conosce i nemici, non sa dove si trovino né quali siano i loro movimenti di attacco. Il ciclo di morti che si prefigura è frustrante, ma non si può pensare che scegliamo questa frustrazione per prendere le redini del nostro destino? A volte chi gioca si scaglia contro un boss avendo già in mente di morire, ma intanto di imparare, sapendo che comunque avrà un’altra possibilità. Falliamo, e il fallimento ci rafforza. Skorupka afferra l’idea perfettamente: «Sappiamo che farà male, sappiamo che potremmo essere sconfitti, ma dobbiamo soffrire per poter creare qualsiasi cosa». Dabrowski si riferisce anche alla ripetizione nell’atto di creare un videogioco. «Quando sto imparando qualcosa di nuovo nell’ambito dello sviluppo, tendo a cercare la mia strada con la forza bruta, in un modo che può essere considerato auto-distruttivo», dice. «Divento ossessionato dall’apprendimento, non importa quanti mal di testa e quante ore di crunch ci vorranno».

Un articolo apparso su
Wireframe #46
Tradotto da
Gilles Nicoli
Data della pubblicazione originale
7 gennaio 2021
Il ricercatore americano James Paul Gee nel suo articolo Good Video Games and Good Learning ha preso in esame i videogiochi per capire in che modo il problem solving e la ripetizione attraverso la distruzione potessero essere applicati in ambito educativo. Ha scoperto che i giocatori devono “ripensare le abilità che danno ormai per scontate, imparare qualcosa di nuovo, e integrare tali nuove conoscenze con le loro vecchie capacità”. Questo processo viene talvolta chiamato “Il ciclo dell’esperienza”. Se l’auto-distruzione porta all’apprendimento e al trasferimento delle abilità acquisite, questa ripetizione è potenzialmente distensiva per chi gioca—un modo circoscritto per esplorare le emozioni del subconscio. Dabrowski concorda: «Le persone spesso trovano rilassante giocare a giochi in cui sanno esattamente cosa li aspetta. Possono entrare in uno stato di trance—forse persino in uno stato meditativo». Nei giochi riusciamo a conseguire traguardi che sembravano impossibili grazie alla ripetizione, mentre attraverso la morte possiamo raggiungere uno stato di pace. L’angoscia vale la pena: ogni passo falso, ogni attacco non parato, ogni game over soddisfa la nostra pulsione di morte. La ricerca della morte ripetuta fa tabula rasa, portandoci a un punto in cui l’angoscia non esiste più. Freud potrebbe considerarlo un modo per muoversi a piacimento tra stati passivi e attivi, mantenendone il controllo. Uno dei pazienti di Karl Menninger ha detto: “Devi assaggiare la parte amara della vita per goderti quella dolce”.