NUTS, Firewatch e il senso di isolamento

Passare del tempo da soli in una foresta può essere un'esperienza strana, anche quando la foresta è virtuale.

Dopo aver finito di giocare NUTS sono rimasto con una strana domanda in testa: perché mi ha divertito così tanto? Ho passato circa quattro ore—si tratta di un titolo piuttosto breve—a spiare degli scoiattoli, registrando i loro spostamenti all’interno della foresta di Melmoth. Per quanto ci sia una storia dietro—una società senza scrupoli chiamata Panorama ha intenzione di costruire una diga, i paesaggi che attraverso presto potrebbero di conseguenza diventare il fondale di un bacino artificiale, la documentazione da me prodotta forse servirà a bloccare l’operazione—non si tratta, almeno sulla carta, di un’attività particolarmente avvincente. Eppure in NUTS lo diventa, e allora, mi son detto, occorre provare a capirne il motivo.

Parto da una sensazione: questo gioco riesce bene a trasmettere un senso di isolamento, e molti degli stati d’animo che ne derivano. Sono solo. Dall’inizio alla fine non incontro nessuno, anche se svolgo i miei compiti con l’aiuto di altri due personaggi. C’è Simon, che mi consegna l’attrezzatura di cui ho bisogno, e si occupa inoltre di spostare la roulotte in cui dormo e lavoro da una zona all’altra della foresta, ma non lo vedo né ci parlo mai. C’è poi Nina, la dottoressa Nina Scholz, che mi affida i vari incarichi e mi aggiorna sugli sviluppi della vicenda relativa a Panorama, ma non incontro mai neanche lei, la sento solamente per telefono. Trovarsi da soli in una riserva naturale e avere come unico contatto con il resto del mondo una voce femminile è una situazione che rimanda facilmente a Firewatch, e NUTS è stato effettivamente paragonato all’opera di Campo Santo praticamente in ogni occasione in cui se n’è parlato. Ci sono tuttavia alcune differenze importanti da rilevare.

Firewatch è un’esperienza perturbante: giocandolo mi sono presto trovato coinvolto in una storia ricca di misteri. Qualcuno mi segue? Qualcuno mi sorveglia, mi controlla, ascolta le mie conversazioni? Cosa c’è dentro quell’area recintata di cui nessuno sembra sapere niente? Mi posso fidare dell’unica persona con cui sono in contatto? Corro dei pericoli mentre me ne vado in giro in quello che, a pensarci bene, non somiglia per niente a uno dei soliti walking simulator? Sono paranoico? Girando tra alberi, radure e corsi d’acqua, inoltre, l’effetto interessante è non riuscire proprio a decidere se la natura stia lì a mitigare o ad amplificare la paranoia.

NUTS (Fonte: press kit)

Firewatch—tanto acclamato da valere l’acquisizione dello studio Campo Santo da parte di Valve—non riesce però a capitalizzare a livello narrativo questo accumulo di sensazioni, e ciò accade a causa di una scrittura scadente. A fine 2016 PC Gamer non ha trovato niente di meglio da segnalare come “best writing” dell’anno, e pochi mesi più tardi è arrivata una premiazione italiana con il Drago d’Oro per la migliore sceneggiatura, ed è tutto abbastanza incredibile: Firewatch è un gioco quasi perfetto in cui la storia è l’unica cosa che non funziona.

Tanto per darne la misura: il finale ricorda quello famigerato di Lost, almeno per la faccia tosta con cui mi prova a convincere che il mistero non abbia mai avuto importanza, e a contare fossero sempre stati solamente i rapporti tra i personaggi. Il modo in cui Firewatch intende proporre come scelta “matura”—e persino innovativa per il medium—un anti-climax finale in cui ci sono solo relazioni complicate tra persone normali, in cui un tema—lasciarsi qualcosa o qualcuno alle spalle—passa dall’essere un antefatto al rappresentare l’unica ragion d’essere dell’opera, non solo non funziona, perché rende incomprensibili e risibili le motivazioni alla base di tutto ciò che era apparso far parte di una cospirazione, ma appare addirittura sleale, rompendo il patto implicito con cui chi gioca accetta di farsi manipolare da chi ha scritto il gioco.

Inutile dire che, qualora fossi stato avvertito della cosa fin dalle prime ore di gameplay in Firewatch, o dalle prime stagioni in Lost, avrei subito lasciato perdere; e mi sarei perso qualcosa, perché, benché entrambe le opere nell’avvicinarsi alla conclusione diventino una collezione di cliché, enormi buchi narrativi e passaggi privi di senso, è il percorso con cui si arriva fin là a valere davvero la corsa. O meglio: è il modo in cui la fruizione di quelle storie ti fa sentire. Trovarsi di fronte a così tanti avvenimenti inspiegabili ti fa entrare in uno stato d’animo da “cacciatore di tesori”, per via del quale ti metti alla caccia di ogni possibile riferimento, citazione, easter egg, contenuto nascosto, per poi andare a condividere teorie e scoperte sui forum o su Reddit; e dal punto di vista degli autori una foresta, che sia quella di Shoshone, di Melmoth o dell’isola di Lost, è un’ambientazione ideale in cui spargere quel materiale. Proprio consultando il subreddit dedicato a Firewatch, ancora attivissimo a cinque anni di distanza dall’uscita del gioco, ho scoperto tantissimi particolari, piccole finezze che non avevo notato.

È in questa ricchezza—nella grafica, nel sonoro, in una recitazione sopra la media, nei “segreti”, nell’utilizzo intelligente e in controtendenza di un mondo aperto piccolo—che Firewatch eccelle. Il grande errore è stato invece voler andare a chiudere spiegando tutto. Spiegare tutto è l’ultima cosa che si dovrebbe voler fare quando non si ha una spiegazione convincente, figuriamoci quando se ne ha una largamente insoddisfacente; e prima di spiegare tutto bisognerebbe sempre chiedersi pure se sia necessario—perché si può anche trovare il modo di spiegar poco, pochissimo, persino di non spiegar niente. Non che sia facile, tutt’altro: non spiegar niente senza deludere è un’arte difficile da padroneggiare, ma è senz’altro qualcosa in cui si può riuscire. Spiegare tutto sapendo di avere un finale debole e lacunoso è una sconfitta annunciata.

NUTS (Fonte: press kit)

NUTS, sebbene non abbia la dimensione o le ambizioni di Firewatch, è capace di schivare tutte le trappole legate a questo tipo di narrazione. Il senso di isolamento qui, più che perturbante, è spaesante. Contribuiscono di certo le scelte cromatiche, il minimalismo dei colori che privilegia tonalità irrealistiche di viola e di arancione, così come la grafica molto stilizzata, in qualche modo capace di evocare un sogno o un ricordo, come in Return of the Obra Dinn; ma lo spaesamento in NUTS è principalmente temporale. Nell’esperienza di gioco il tempo è fuor di sesto, come William Shakespeare faceva dire al suo Amleto e come pensava anche Martin Heidegger, e il presente è sempre infestato dai fantasmi del non-più e del non-ancora.

Di giorno sono nella foresta a piazzare le videocamere fornite da Simon, in modo da poter registrare gli spostamenti degli scoiattoli, e mi proietto nel futuro facendo supposizioni su quali potranno essere i loro tragitti notturni; di notte sono nella mia roulotte attrezzata con alcuni monitor e una stampante, e mi proietto nel passato guardando le registrazioni di quanto è già avvenuto, alla ricerca del fotogramma giusto, quello da inviare a Nina per completare l’incarico, oppure quello che mi permetterà di fare supposizioni migliori il giorno dopo, quando tornerò nella foresta a spostare di nuovo le videocamere. È soprattutto questa costante proiezione in avanti e indietro nel tempo a far funzionare bene il gameplay di NUTS, dando ritmo alle azioni e alla scansione dei giorni.

In effetti, NUTS sembra un titolo giusto al quale tornare ogni volta in cui si coltiva il pensiero che la scrittura, l’arte cinematografica, quella videoludica, la vita, tutto sia in ultima istanza una questione di ritmo. Anche Firewatch presentava una scansione in giorni, ma era funzionale solamente alla narrazione. In NUTS invece il ritmo è strettamente legato al gameplay, anche perché la storia non aggiunge alla condizione di isolamento alcun particolare mistero né senso di minaccia. Nella foresta di Melmoth, tutt’al più, ho avuto la sensazione di essere allo stesso tempo un osservatore e un oggetto di osservazione. Per un gioco appena uscito non mi sembra il caso di parlare troppo del finale, ma rappresenta senza dubbio un buon esempio dell’arte di non spiegar niente a cui mi riferivo prima: la conclusione di NUTS non solo fornisce più domande che risposte, ma mette a frutto tutte le premesse poste fin lì per arrivare a un climax dello spaesamento, e non più solamente temporale, in cui l’impressione è quella di dover riconsiderare, se non tutta l’esperienza di gioco, almeno ciò che accade da un preciso momento in poi.