Shelter 3: una connessione latente

La cura digitale di un branco di elefanti.

Siamo animali e, in quanto tali, le nostre azioni sono dirette dagli istinti. L’istintualità è un topic molto sentito nella saga survival Shelter della casa svedese Might and Delight, di cui è uscito quest’anno il terzo capitolo. Dopo esserci occupati nei primi due episodi di trovar riparo ad una famiglia di tassi, poi ad una famiglia di linci (probabilmente il capitolo meglio riuscito secondo gran parte della critica), in Shelter 3 ci occuperemo di un branco di elefanti. Noi guideremo Reva, la matriarca del branco che cercherà di condurre la sua famiglia al rifugio attraverso la savana.

Da queste poche premesse circa la tematica che ispira il gioco, non possiamo non chiederci come essa sia trattata e a chi sia rivolta. Shelter permette una immedesimazione senza interferenze per quanto riguarda la gestione della matriarca; le uniche informazioni che ci vengono date sono frasi enigmatiche di una nostra antenata circa le direzioni da prendere, per portare il nostro gruppo da un punto a ad un punto b. A spezzare il cammino, alcune scene “oniriche” ci permettono di dialogare con il nostro spirito guida, mentre nel cielo le costellazioni indicano le direzioni percorribili.

Shelter 3 (Fonte: press kit)

Le interazioni tra gli animali invece sono piccole “love reactions” o altri simboli che compaiono sulle teste dei mammiferi quando ci occupiamo di loro. Come nei capitoli precedenti, dovremo procurarci del cibo (speronando gli alberi) e proteggere i nostri cuccioli dai predatori. Un ecosistema povero, nemici davvero poco challenging e più ornamentali che altro, grafica low-poly che distrae e non arricchisce, rendono l’esperienza di gioco fiacca e non coinvolgente quanto Shelter 2, in cui ci si può muovere liberamente in un simil-open world che dà il sentore di essere un mondo più esplorabile rispetto al primo e al terzo capitolo.

A pensarci attentamente, è intrigante il modo in cui viene narrata la storia, per quanto semplice e basilare: il gioco racconta di un animale, ma noi siamo l’animale, ricordando titoli come Lost Ember, Dog’s life, oppure Season’s After All. Una componente però viene aggiunta, quella della sopravvivenza su base giornaliera; mancano stamina, salute e punti ferita, ma nel suo minimalismo Shelter non dimentica la cura dell’altro. Cura che non può non far pensare a Nintendogs oppure, più indietro nel tempo, a Tamagotchi, il videogioco portatile che negli anni Novanta permetteva di prendersi cura di un alieno dalle sembianze di un animale.

Tamagotchi e Shelter 3 hanno sicuramente in comune il fatto che la morte non venga mitigata: in entrambi i titoli, se il nostro animale muore, non è possibile riportarlo in vita. Nel caso del gioco di Might and Delight la morte irrimediabile viene lasciata alle spalle dal gruppo di elefanti, mentre nella produzione Bandai ci resta ovviamente l’involucro esterno tra le mani. Questa inevitabilità della morte accresce l’empatia nei confronti delle nostre controparti animali; in Insieme ma soli di Sherry Turkle—testo che analizza il dibattito post-biologico intorno al rapporto con androidi/animali “da compagnia” elettronici—l’autrice ci parla però anche di un “attaccamento senza responsabilità”, di un legame creato senza dover soddisfare i bisogni affettivi e biologici dell’animale, senza doverci essere ma solo avere.

Shelter 3 (Fonte: press kit)

In questa prospettiva è interessante notare come Shelter 3 faccia un passo in più rispetto a Nintendogs e simili: sicuramente l’attaccamento tra me-giocatore e i membri del gruppo è più blando rispetto a me-padrone e Tamagotchi, perché non c’è un rapporto 1:1 e perché è inserito in una storia in cui, probabilmente, è impossibile creare una vera connessione emotiva con gli altri componenti del gruppo. Soprattutto, la casa svedese al tema dei “compagni veri” analizzato dalla Turkle—robot/videogiochi simili ad animali con i quali passare il tempo senza che ci chiedano nulla in cambio—sostituisce una immedesimazione completa e in prima persona: sono io a cacciare, proteggere e guidare.

Resta da capire però quale sia la finalità di un gioco del genere, dato che non si inserisce nel filone del “connessi ma soli”, non vuole insegnare né spiegare, ci propone un realismo molto basso e una storia che, nei fatti, non arricchisce il giocatore e difficilmente riuscirà a farlo emozionare. Il titolo non ricorre nemmeno a quella “facoltà mimetica” di cui si è parlato a proposito di Beyond Blue di E-Line Media, perché Might and Delight punta sulla componente visiva (e sonora) più che su ogni altra. Shelter riassume una storia sempiterna, un mondo che ha protagonisti deboli e forti che si scontrano tra loro per la sopravvivenza; non si allontana, insomma, dal solito tema della “natura matrigna”.