The Invincible, dal libro al videogioco

L'adattamento del romanzo di Stanislaw Lem fa bene al medium videoludico.

Lo dirò subito: è meglio il libro. Del resto, laddove non era riuscito Tarkovskij, con l’adattamento cinematografico di Solaris, era difficile riuscisse Starward Industries—nuovo studio polacco formato da ex sviluppatori di CD Projekt Red, Techland e Bloober Team—con la propria opera prima, The Invincible, sempre tratta da un romanzo di Stanislaw Lem. Una scelta ambiziosa per un debutto, innanzitutto perché i videogiochi hanno spesso guardato al cinema per trarre ispirazione, ma molto più raramente alla letteratura; e poi perché, appunto, rispetto a un qualsiasi tipo di adattamento, è sempre meglio il libro. È meglio il libro anche quando il film è un capolavoro—come lo sono quasi tutti quelli di Tarkovskij—ed è meglio il libro anche quando il videogioco è pronto a diventare un caposaldo nel suo genere, come in questo caso. Questa regola, le cui eccezioni sono così poche da poterla solamente confermare, merita allora di essere approfondita.

Secondo l’opinione forse più diffusa, la superiorità dell’opera letteraria risiede nel maggiore spazio che lascia all’immaginazione: i paesaggi, i volti dei personaggi, i loro gesti, tutto viene descritto e non già associato a un’immagine. È senz’altro un buon punto, ma vorrei aggiungerne un altro, più definitivo: il romanzo ha il vantaggio di essere facilmente la migliore versione possibile di se stesso, per almeno due ragioni. La prima: per scriverlo basta il computer più economico in circolazione, o addirittura una macchina da scrivere, o una penna e alcuni fogli di carta. Non esistono romanzi che sarebbero stati migliori se avessero avuto più budget a disposizione. La seconda: in un romanzo difficilmente c’è qualcosa che non funziona (se qualcosa non funziona, è colpa solamente dell’autore); quando si gira un film, invece, alcune cose è meglio non farle, e quando si sviluppa un videogioco, le cose da evitare sono ancora di più.

È noto, ad esempio, che Goskino, la commissione di stato sovietica per il cinema, mise inizialmente a disposizione, per la realizzione di Solaris, 1.850.000 rubli. Una somma importante, che venne poi ripetutamente decurtata fino a 900.000 rubli, meno della metà del budget iniziale. Il regista iniziò a girare nel marzo del 1971, e a luglio e poi ancora a settembre dello stesso anno si ritrovò a corto di pellicola a colori (ricorderete forse che nel film ci sono diverse scene che sembrano non aver alcun particolare motivo diegetico per essere in bianco e nero). Chi ha letto il romanzo, poi, sa bene che Stanislaw Lem dedica ampio spazio alla descrizione della solaristica, un’intera disciplina votata alla comprensione delle affascinanti proprietà del pianeta Solaris. Nulla di tutto ciò funzionerebbe in un film, e Tarkovskij—che oltretutto, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non era esattamente un appassionato di fantascienza—giustamente taglia, esclude dal copione per concentrarsi sui personaggi. La prima versione della sceneggiatura, addirittura, prevedeva una storia ambientata quasi interamente sulla Terra, e non nella stazione orbitante intorno a Solaris: una scelta che non trovò l’approvazione né di Stanislaw Lem né della casa di produzione Mosfilm. Arrivò allora una seconda versione: «Abbiamo preparato un’altra sceneggiatura che speravo di poter abbandonare tranquillamente durante le riprese. Ma non ci siamo riusciti», avebbe poi raccontato nei suoi diari. Insomma, Solaris è praticamente il film che Tarkovskij non è riuscito a non fare, ed è un capolavoro.

The Invincible (fonte: press kit)

Anche The Invincible si allontana dalla storia originale di Stanislaw Lem (con l’approvazione, stavolta, del figlio Tomasz). Il romanzo narra le vicende dell’equipaggio dell’Invincibile, atterrata sul pianeta Regis III per scoprire che fine abbia fatto la sua astronave gemella Condor, con la quale si è perso da tempo ogni contatto. È prevedibile, e del resto il romanzo è di quasi sessant’anni fa, quindi lo dirò: quelli del Condor sono tutti morti. Nessuno spoiler, comunque, su cosa sia successo. La trama del videogioco si colloca tra la spedizione del Condor e quella dell’Invincibile: stavolta è la più piccola Dragonfly ad arrivare sul pianeta, con un equipaggio di sole sei persone che si riduce velocemente alla sola protagonista, Yasna. Le sue esperienze su Regis III saranno in parte inedite, in parte sovrapponibili a quanto accade, nel romanzo, all’ufficiale di rotta Rohan.

Avere pochi personaggi è una decisione funzionale alla storia: «Volevamo un equipaggio piccolo per poter mostrare meglio le relazioni e raccontare una storia più intima, da una prospettiva individuale e non di gruppo», ha spiegato il game director Marek Markuszewski nella cover story del numero 371 di Edge; ma significa anche risparmiarsi parecchio lavoro in fase di animazione e di doppiaggio, e questa sarà stata una considerazione tutt’altro che marginale per un titolo i cui limiti di budget si rivelano pure altrove; in particolar modo nel level design, che quando abbandona la linearità per consentire l’esplorazione di più ampie aree del pianeta non si preoccupa di evitare i classici “muri invisibili” dei giochi di una volta. Non si può fare a meno di notare, inoltre, come il romanzo contenga molte più sequenze di azione rispetto al gioco. È meno paradossale di quanto sembri, perché le sequenze di azione costano, ma soprattutto perché quelle del romanzo—piccolo spoilerportano tutte a un fallimento: non esiste probabilmente esempio migliore di una cosa che può andare benissimo in un romanzo, ma in un videogoco proprio non funzionerebbe.

The Invincible si affida allora a un modello consolidato, quello di Firewatch (e non è certo un demerito di Starward Industries, quanto un’ulteriore attestazione dell’importanza del titolo di Camposanto nella storia recente del medium): all’azione viene preferito il dialogo, con Yasna in continuo contatto radio con l’astrogatore—neologismo notevole, non di Stanislaw Lem ma probabilmente di David Lasser—Novik, che resterà per lei esclusivamente una voce, nonché il solo altro essere vivente con cui avrà modo di interagire per quasi tutto il tempo. La ricetrasmittente è dunque al centro della storia: è durante il contatto radio, unico elemento rassicurante nella desolazione e nel silenzio di Regis III, che si sviluppa l’esplorazione; ed è quando si interrompe la trasmissione che sale la tensione, e si insinua un senso di pericolo, e la protagonista a volte canta per farsi coraggio. Il microfono, a sinistra, è inoltre una presenza costante su schermo—da affiancare a un cannocchiale e a due diversi rilevatori, fondamentali in certe fasi del gioco—così come il casco di Yasna, che si appanna, si bagna, si sporca di sabbia, pesa e condiziona i movimenti.

The Invincible (fonte: press kit)

L’immersione nel mondo di gioco passa molto per gli oggetti: hanno tutti una funzione, stanno sempre dove si trovano per un motivo. Il lavoro fatto in questo senso è impressionante: se i temi del libro sono universali, e riguardano «l’anti-imperialismo, l’anti-colonialismo, i limiti della conoscenza umana, e il rispetto della natura, anche quando è aliena e incomprensibile», come riassume bene l’art director Wojciech Ostrycharz in un’intervista su Game Rant, e quindi non avevano bisogno di essere aggiornati, per la tecnologia si è scelto espressamente di restare fedeli alla visione del futuro che poteva avere Stanislaw Lem negli anni Sessanta: moltissima strumentazione vintage, allora, ispirata tanto dai grandi illustratori della fantascienza del passato quanto da progetti reali, come quelli commissionati a Galina Balashova per gli interni delle capsule spaziali sovietiche.

Varrebbe la pena giocare The Invincible anche solamente per questo gusto per una fantascienza storicizzata, che era già un grande pregio di Prey; ma c’è da aggiungere pure la migliore colonna sonora dell’anno—composta da Brunon Lubas—e c’è infine la possibilità di guardare a questo gioco come al capitolo finale di un’ideale trilogia, che si è giusto completata negli ultimi mesi del 2023, volta a esplorare tutte le possibili declinazioni della fantascienza all’interno del panorama videoludico.

Per primo è arrivato Starfield, in cui una trama esiste ma ha un’importanza davvero relativa; il modo migliore per godersi i mondi aperti di Bethesda è perdercisi, trasformarsi in un flaneur digitale che non attende mai niente ma sa di potersi aspettare di tutto, e si tiene dunque pronto a intraprendere qualsiasi attività, a seguire l’intuito, a cogliere l’opportunità, a recepire ogni stimolo, a cambiare direzione all’ultimo momento, a lasciarsi catturare dal dettaglio più insignificante. È quel genere di titolo che, per dire, potete giocare focalizzandovi per tutto il tempo solo sul caffè. Poi è venuto il turno di Cocoon, titolo d’esordio di Geometric Interactive, il nuovo studio fondato da Jeppe Carlsen, game designer di Inside e Limbo. Qui non c’è alcuna traccia di una trama; anzi, non c’è una sola riga di testo. Eppure ha una chiarezza che quasi sfiora la metafisica: si portano letteralmente in spalla interi mondi, si entra in un nuovo mondo esattamente come si entrerebbe in una pozzanghera, e tutto ciò ha perfettamente senso—si giunge persino ad avere l’impressione che non potrebbe essere altrimenti. In Cocoon la fantascienza è puro gameplay. Infine, c’è il caso di un’opera interamente narrativa come The Invincible, in cui la trama è il cuore dell’esperienza, e ogni singolo elemento del gioco è al suo servizio: e quando la storia è quella di uno dei più grandi autori che la fantascienza abbia mai avuto, alla fine poco importa che sia meglio il libro. Il titolo di Starward Industries segue una strada poco battuta, o forse sarebbe meglio dire che la inaugura, perché un approccio simile alla materia letteraria non si era mai visto. The Invincible è un’opera che fa bene al medium videoludico, e c’è da sperare che sarà di ispirazione per tanti altri studi di sviluppo.