Una locanda è una locanda è una locanda

Il fastidioso fenomeno del burnout da RPG e come evitarlo.

Radiant Historia è un JRPG sviluppato da Atlus e originariamente uscito per Nintendo DS nel 2010. Nella versione DS non arrivò mai in Europa; l’unica localizzazione disponibile era quella americana. Le carte sono cambiate lo scorso febbraio, quando è uscito per 3DS un remaster ampliato del titolo, disponibile stavolta anche per i giocatori del Vecchio Continente. Mi sono lasciato tentare a un acquisto della prima ora, incuriosito dalla nomea del gioco. Il titolo si basa infatti sull’accattivante idea di poter modificare il flusso temporale della storia; in corrispondenza di nodi o svolte cruciali della trama, potremo tornare indietro e alterare le nostre scelte per ottenere esiti diversi, decidendo chi e cosa sacrificare o salvare. Radiant Historia ci mette nei panni di figura storica e cronista allo stesso tempo, il che ha reso questo JRPG un piccolo cult classic per gli appassionati. Questo non significa, tuttavia, che un certo snellimento della massa del gioco—garantito da una nuova difficoltà semplificata—non risulti benvenuto.

Come sempre quando acquisto un titolo nuovo, ho subito iniziato una nuova partita, “per accertarmi che tutto funzioni”. Una scusa, ovviamente, per dare un’occhiata anche a tutto il resto: l’intro, la maggiore o minore immediatezza dei controlli e dei menù, l’estetica generale—per poi spegnere il sistema, rimettere il disco o la cartuccia nella sua confezione (da un po’ di anni a questa parte, tristemente spoglia di manuale), e archiviare il gioco per un consumo futuro.

Durante la sequenza di apertura di Radiant Historia, sorvoliamo le strade di Alistel; il nostro protagonista—il guerriero Stocke—milita nell’esercito della città. Il posto è una selva di edifici metallici in stile steampunk e ha quella venatura d’indeterminatezza storica che caratterizza il genere (una sorta di Rivoluzione Industriale retrodatata al Medioevo) e crea una facile soluzione di continuità fra tecnologie che, nella storia umana, apparterrebbero ad epoche diverse.

Radiant Historia
Radiant Historia (Fonte: Youtube)

Nell’architettura color ferro della città, la mia attenzione è catturata da un piccolo edificio sormontato dall’insegna “INN” (“locanda”), universalmente riconoscibile per chiunque abbia giocato a un JRPG classico, da Dragon Quest ai Final Fantasy per SNES. Sono leggermente stupito che l’introduzione sbatta in faccia al giocatore qualcosa di così mondano—il tono generale è piuttosto solenne (il mondo che stiamo vedendo, ci viene suggerito, è sull’orlo di un’apocalisse causata da guerre e desertificazione), non ci si aspetterebbe quindi di essere riportati subito al livello delle tecnicità del gameplay, anche se involontariamente, tramite un piccolo indizio visivo. Appena vedo la parola “INN” che eleva un posto specifico in un panorama urbano altrimenti privo di scritte, non posso che pensare immediatamente alla routine ruolistica cui dovrò sottopormi a breve, dato che la locanda è il posto dove ci si riposa e riorganizza prima di incamminarsi verso il prossimo dungeon o evento nella storia, la prima tappa appena arrivati in città. C’è sempre una camera da letto, dove una notte di sonno può magicamente lavare via avvelenamenti, paralisi e persino possessioni demoniache; c’è sempre qualcuno che cerca aiuto, e qualche PNG con qualcosa di più o meno interessante da dire. Si può entrare nelle stanze altrui e chiacchierare con gli ospiti, o svuotare i loro armadi, senza che nessuno faccia obiezioni. Se possibile, cerco sempre di salvare in una locanda prima di concludere una sessione di gioco; trovo rassicurante l’idea del mio alter ego di gioco congelato in un posto accogliente.

Eppure nessuna di queste associazioni sembra funzionare quando avvisto quel familiare INN durante l’intro di Radiant Historia. Anzi: è proprio questa familiarità, in qualche modo, a disturbarmi. Non perché avessi chissà quali aspettative sperticate: se inizio un JRPG so benissimo a cosa vado incontro e sono più che lieto di dedicarmici. Sono sicuro che Radiant Historia—con il suo pedigree Atlus—finirà per divertirmi quando mi ci metterò sotto, sembra averne tutte le carte in regola. Ma riconosco un senso di spaesamento a causa di questa lieve incrinatura dell’immersione a inizio del gioco.

Eppure la mia esperienza con Radiant Historia non è così inusuale. A ben vedere, contiene in versione accelerata alcuni elementi chiave della mia esperienza con qualunque JRPG. Il mio senso di aspettativa—alimentato da spizzichi e bocconi di informazioni raccattati da recensioni, Twitter e subreddit a tema—si accentra proprio intorno agli aspetti meccanici del gioco, e alla maniera in cui un dato scenario narrativo (che spero sempre essere il più contemporaneo possibile, o al massimo di fantascienza mondana) si incrocerà con le scelte del gameplay e con la possibilità di costruire e personalizzare un personaggio. Ed è in questo senso che agisco all’inizio di ogni JRPG: mi costruisco un’immagine mentale del mondo di gioco, scorro i menù e la scheda del personaggio, la struttura dell’inventario, e soprattutto esploro. Sin dall’inizio, mi esercito già nella rottura di una routine: anziché interessarmi alla trama principale, prendo a vagare per conto mio per il puro gusto di farlo, soprattutto se il gioco—come accade spesso nelle prime battute o in corrispondenza di punti nodali della trama—fa di tutto per suggerirmi l’urgenza di andare avanti, quando sarebbe vitale (così sembra) andare ad A e parlare con X o difendere Y dal mostro Z e ottenere così l’oggetto B che ha il magico potere di fare andare avanti il plot.

Non aiuta che anche quando la posta in gioco è alta—la vita di un personaggio che il gioco vuole farci stare a cuore, il destino della città o del regno che ci hanno dato i natali—raramente questo comporta effettive limitazioni temporali: spesso possiamo rimandare all’infinito compiti che dovremmo eseguire “immediatamente” (ho perso il conto di tutte le volte che ho passato ore a far grinding e cambiare gli outfit della mia squadra in giro per Shibuya in The World Ends With You, malgrado la trama insistesse che Neku e amici sarebbero morti nel giro di “15 minuti”). Preferisco sempre che il gioco mi conceda i miei spazi: voglio poter essere in grado di farmi gli affari miei senza troppe interferenze, di osservare le case e gli edifici di una città e ricostruire la possibile vita dei suoi abitanti, di conversare pigramente con i PNG (le chiacchiere devono essere interessanti—in alcuni casi ho abbandonato giochi perché la conversazione era troppo banale). Queste derive possono essere incoraggiate da una data subquest, ma più spesso sono fini a sé stesse. È la loro assenza di obbiettivi a giustificare e riqualificare la ripetizione, il gameplay loop, creando una sorta di equilibrio che tiene lontana la noia.

Ma anche questi momenti di distensione non riescono del tutto a bandire occasionali episodi di frustrazione. Il problema può acuirsi quando gioco a più titoli di una stessa serie o anche di uno stesso sviluppatore, ma c’è qualcosa nei giochi di ruolo che può rendere queste crisi inerenti al genere, tanto è vero che si parla spesso di “RPG burnout” e non di “FPS burnout” o “Platform burnout”. Il JRPG—mi ritrovo a scrivere di giochi di ruolo nipponici, in quanto sono quelli che conosco meglio—è un genere tendenzialmente “bolso”: in virtù del suo combattimento a turni, può risultare meno adrenalinico (i critici del genere storcono il naso di fronte alla “selva di menù” nella quale si deve navigare per eseguire anche le azioni più semplici); il sistema di costruzione del personaggio—meno legato agli origini tabletop delle controparti occidentali più “classiche”—è considerato o troppo semplice o troppo arzigogolato (un esempio eclatante: l’enorme albero delle abilità a forma di scacchiera in Final Fantasy X); la vicinanza agli stilemi degli anime e la libertà solo relativa di influenzare la storia possono scoraggiare certi giocatori che prediligono una narrazione tarata sulle loro decisioni. Se fosse un genere musicale, il JRPG sarebbe forse il progressive dei video game—ugualmente capace di attirare tanto stigma quanto passione sfrenata da parte del pubblico.

Final Fantasy X (Fonte: Youtube)

Il burnout da JRPG nasce proprio nel momento in cui identifichiamo con lucidità la massa di “contabilità” che dobbiamo tenere nel corso del gioco. Prendiamo la serie Shin Megami Tensei: ambientata solitamente in una Tokyo post-apocalittica, ci richiede ogni volta di formare la nostra squadra di demoni da schierare in combattimento e dai quali estrarre abilità per il nostro personaggio; i demoni andranno fusi regolarmente in creature più potenti o versatili grazie all’aiuto di un vecchietto spiritato che vive rintanato in appositi spazi nei centri commerciali e stazioni dilapidate della capitale giapponese in rovine; dovremo scegliere se dotare il nostro protagonista con armi da mischia o pistole, e scegliere le munizioni adeguate; il nostro party dovrà avere una buona varietà di demoni per sfruttare al massimo il press turn system reso famoso dalla saga (colpire la debolezza di un nemico concede azioni extra o bonus aggiuntivi).

La tradizione locanda-e-mercato è ubiquitaria nel genere e tende ad essere particolarmente evidente nei Final Fantasy classici, nei Dragon Quest e—in versione rivisitata—nei titoli della serie Pokémon (Pokémon Center, Poké Mart): avanzare nella trama significa ogni volta muoversi verso una nuova città, identificare il “problema” da risolvere o il nodo da districare, visitare il dungeon apposito e ripetere la sequenza. Anche per gli appassionati più accaniti, può sempre esistere quel momento di frustrazione che tende a insinuarsi con più forza nelle prime battute di un videogioco o—all’opposto—verso la fine dello stesso, quel momento in cui la pancia è piena, e ogni elemento del gameplay cade con fin troppa perfezione e puntualità in una mappa mentale che ci permette di giocare “adeguatamente”, senza trascurare nessun membro del party, raccattando l’equipaggiamento adeguato e riorganizzandosi con relativa facilità se il boss di turno ci sta dando problemi. Non stupisce che sia più facile incontrare questo tipo di stanchezza in giochi la cui durata media si aggira intorno alle 30/40+ ore come minimo sindacale, e non con un FPS o un action di 15/20 ore: il peso delle ore giocate si fa sentire con più forza—un tempo potenzialmente capace di estendersi all’infinito, e la prospettiva di aumentarlo assume a volte sfumature terrificanti.

Le mie peggiori disavventure con i JRPG sono nate appunto da questa disarmante prospettiva e si sono tutte concluse in minore: non con un rage quit (che almeno avrebbe un che di rivalsa) ma con un lento, sfibrante processo di abbandono. Di base mi capita di non sentirmi pienamente coinvolto nel gioco, senza per questo detestarlo: magari posso apprezzare certe scelte degli sviluppatori o trovare questo o quel membro della mia squadra simpatico e divertente da usare in battaglia, ma c’è un contrappunto nella mia testa che osserva, sardonicamente, che difficilmente potrò mantenere l’interesse per altre 50/60 ore. A confronto con questa prospettiva, anche le funzionalità più originali del gioco perdono significativamente di smalto, ed è infatti un pensiero che riesco a tenere sufficientemente a bada finché l’immersione funziona a dovere.

Mi risulta altrimenti difficile firmare il contratto di lavoro non scritto a tempo più o meno indeterminato che molti di questi titoli stipulano col giocatore. Capita allora che accumuli una ventina/trentina d’ore in due/tre settimane, per poi giocare sempre meno, fino a gettare la spugna. Quando un JRPG mi conquista, conquista anche la mia fantasia; ci penserò nei momenti liberi della mia giornata, rivisiterò i luoghi che ho visto e le scelte che ho intrapreso per il mio personaggio, i progetti che ho per la sua evoluzione e così via; la routine del gioco si sovrappone alla mia routine quotidiana. Se quest’intesa non scatta, la routine del gioco diventa solo una seconda tabella oraria da rispettare, routine come pura lista di cose da fare e non come lo spazio nelle e fra le cose che riempiono una giornata o una sessione di gioco, piacevoli o noiose che siano. Routine come l’insegna “INN” che sbuca in mezzo a un panorama cittadino altrimenti suggestivo, rovinando una bella vista.

Sumaru City mall
Persona 2: Innocent Sin (Fonte: Megami Tensei Wiki)

La sincronia tra queste due quotidianità—nella mia esperienza—si realizza più facilmente se gli spazi che attraversiamo cambiano e ci raccontano una storia. Anche se si tratta di una serie di eventi prestabiliti, abbiamo infatti la sensazione che le nostre azioni e scelte—tanto nei dialoghi, quanto nelle strategie e nella scheda del personaggio—abbiano degli effetti reali o quanto meno una correlazione immediata con quanto succede nel gioco. Ed è per questo che apprezzo JRPG che—per lo più rinunciando all’open world—ritagliano uno spazio contenuto e facilmente dominabile, come una singola metropoli.

Un possibile esempio è Persona 2 Innocent Sin per PlayStation, tutto ambientato nella città fittizia di Sumaru City. Quella che all’inizio del gioco sembra essere una normale giornata di scuola, vede in poco tempo i nostri protagonisti – giovani liceali dotati dell’abilità di evocare demoni, o “persona” – alle prese con creature ostili che invadono le aule e gli spazi dell’istituto; lo stesso destino subiranno luoghi che fanno parte della vita quotidiana di un adolescente di città, come il mega-negozio di dischi, la palestra, la discoteca. I nostri possono rifocillarsi e rifornirsi presso i centri commerciali disseminati nei vari quartieri della città; equivalenti contemporanei delle locande, gli shopping mall di Innocent Sin presentano negozi e ristoranti che variano da quartiere a quartiere.

Ogni proprietario ha la sua personalità e interagisce diversamente con i membri del party—l’attempata signora che gestisce il locale di ramen tratterà i ragazzi con materna benevolenza (conosce il padre del rocker Eikichi, cosa che non mancherà di turbare il giovane malmostoso); il fricchettone americano ci vuole rifilare le sue cianfrusaglie (che guarda caso comprendono anche diverse armi letali) prima di tornarsene in patria; la commessa del negozio d’abbigliamento posh che ci vende armature farà numerosi ammiccamenti al nostro protagonista silenzioso; la giornalista Maya, membro della nostra squadra, sarà particolarmente contenta quando mangeremo al ristorante francese dove promette di offrire una cena a tutti quando l’ordalia sarà conclusa.

I centri commerciali di Innocent Sin sono uno sgamato stratagemma di game design; anziché proporre sempre gli stessi non-luoghi che scandiscono il ciclo di esplorazione-dungeon-rifornimento, creano delle piccole narrative intorno a queste tappe obbligate del gameplay. Questi centri commerciali sono il luogo di ritrovo perfetto per dei giovani in una grande città: costruiscono un microverso di mondi falsificati, giapponesizzati, in particolare in una metropoli come Sumaru City dove i grandi palazzi predominano e il livello strada sembra essere del tutto assente se non per qualche struttura che, come nelle grandi città nipponiche, funge da occasionale segno del passato (il tempio shintoista).

Stesso varrà, seppure in declinazioni diverse, per i centri commerciali di Persona 3 e i vecchi negozietti di Persona 4 (dove il centro commerciale esiste, ma è visitabile solo in parte, giusto per il bar dove si ritrovano i protagonisti); questi giochi—sotto-serie del già nominato franchise Shin Megami Tensei—propongono tutta una loro teoria di routine e quotidianità, che è già stata ampiamente discussa da critici e appassionati. L’ossessione per il world building è prevalente tra i nerd, e nella maggior parte dei casi la trovo abbastanza lontana dalla mia sensibilità; il database è utile come compendio degli strumenti e motivi di un dato genere, ma quando è fine a sé stesso, e si manifesta in un sovraccumulo di informazioni e dettagli secondari, mi risulta molto difficile prestare attenzione. Le istanze di questa pratica nella serie Persona, tuttavia, mi sembrano molto eleganti e contribuiscono a oliare gli ingranaggi a volte un po’ arrugginiti del game play loop di un JPRG classico o di un dungeon crawler. La meccanicità permane, ma la pillola è quanto meno addolcita.

Non per questo è corretto discriminare titoli con ambientazioni più importanti; la loro dispersività rende il gameplay loop a tratti più evidente, ma è pur sempre possibile che emergano stratagemmi per dilettarci anche dopo l’ennesimo dungeon o foresta attraversati. A volte la stessa ripetizione, la meccanica pura, hanno un effetto ipnotico; ho investito 100 ore in Final Fantasy VIII e credo che buona parte di esse siano state spese nello sperimentare con le junction, assorbire abilità dai nemici e inventare modi per sfruttare il limit break del mio party principale. Forse Radiant Historia—con i suoi salti avanti e indietro nel tempo e il suo combattimento a griglie—avrà in nuce questo potenziale; mi è ancora impossibile dirlo. La cartuccia, al sicuro nella sua esile custodia da gioco per 3DS, rimane adagiata sul mio scaffale; ingrossa il backlog di JRPG che—con il loro carico di locande, menù, scontri a turni e bizzarre scacchiere di abilità—non ho ancora avuto modo o coraggio di affrontare.