Inseguendo il sogno giapponese

Le storie degli sviluppatori occidentali che sono andati a vivere e lavorare in Giappone.

I giocatori che hanno completato The Legend of Zelda: Breath of the Wild potrebbero aver notato il nome di Corey Bunnell, citato nei titoli di coda come programmatore della fauna selvatica del gioco. Cercando su internet si può scoprire che un decennio prima, non appena diplomato, aveva scritto su un forum di traduttori per chiedere consigli su come andare a vivere in Giappone e lavorare per Nintendo. È commovente venire a sapere che sia riuscito a coronare il suo sogno—lavorando oltretutto a uno dei migliori giochi di tutti i tempi. Non è l’unico dipendente non giapponese in Nintendo; c’è anche il game designer Jordan Amaro, che ha lavorato a Splatoon 2 e alle sue espansioni, mentre tra le sue apparizioni precedenti ci sono titoli giapponesi come Resident Evil 7 e Metal Gear Solid V.

Nonostante lo sviluppo di videogiochi sia un processo sempre più internazionale, e grandi studi del Giappone come Sega e Square Enix abbiano diverse sedi sparse per il mondo, il settore videoludico del paese rimane in larga parte giapponese. Ci sono sempre state delle eccezioni, come Nasir Gebelli, prolifico programmatore di Apple II che è andato a lavorare per Squaresoft alla fine degli anni Ottanta, creando i primi tre Final Fantasy e Secret of Mana. Nonostante ciò, entrare in uno studio giapponese può rivelarsi un sogno irraggiungibile per gli stranieri, al di là delle barriere culturali e linguistiche.

Se si tratta di un sogno è perché il Giappone viene spesso considerato la patria spirituale dei videogiochi, in particolar modo da chi è cresciuto con Nintendo, Sega e PlayStation. Per chi volesse provarci, ha senso imparare dagli emigrati che hanno già fatto il grande passo, non solo facendo del Giappone la propria casa, ma lasciando un segno nel settore videoludica giapponese.

La prima volta

Gli sviluppatori Dylan Cuthbert (Q-Games), Jake Kazdal (17-bit) e Mark MacDonald (Enhance) fanno parte della stessa generazione, essendo cresciuti con i videogiochi negli anni Settanta e Ottanta, eppure i loro percorsi verso una carriera nel settore videoludico giapponese non potrebbero essere più diversi, essendo arrivati in Giappone quasi a distanza di un decennio l’uno dall’altro.

Cuthbert, che lavorando presso Argonaut Games era già inserito del settore videoludico inglese, nel 1991 ricevette, insieme al fondatore dello studio Jez San, una chiamata da Nintendo per mostrare alcuni prototipi 3D per il Game Boy nel quartier generale di Kyoto. «Per me è stato uno shock, non avevo mai visto né conosciuto altre culture al di fuori del Regno Unito», racconta Cuthbert, ricordando il suo primo viaggio in Giappone. «A quel tempo anime, manga e videogiochi giapponesi non erano il fenomeno enorme che sarebbero poi diventati. Ero abituato ai piccoli studi di sviluppo scalcagnati inglesi, mentre Nintendo era gigantesca, con lunghi corridoi bianchi e dipendenti in divisa aziendale».

L’ascesa del Giappone è stata più evidente negli Stati Uniti, specialmente con il dominio di Nintendo dopo il crash dei videogiochi del 1983. È stato attraverso il NES che Kazdal e MacDonald hanno avuto un primo assaggio dei giochi giapponesi, prima di iniziare a spendere i loro risparmi in cartucce e riviste d’importazione, quando i negozi specializzati erano ancora diffusi. Kazdal aveva la fortuna di vivere a Seattle, che era la sede degli uffici americani di Nintendo, dove iniziò la sua carriera. «Ero un Game Counselor, ovvero la persona che prima di internet la gente chiamava per chiedere “come batto quel boss, dove trovo quella dannata spada, come faccio a fare questo o quello”», spiega.

Da quel primo lavoro passò ai vicini uffici delle compagnie giapponesi Enix ed Irem. «Mi occupavo dei test, e a quel punto capii di volere che il passo successivo nella mia carriera fosse lo sviluppo di videogiochi». MacDonald sostiene di aver iniziato a subire il fascino della cultura e dei videogiochi giapponesi grazie a un amico l’infanzia, che era un giappo-americano di seconda generazione. «In sostanza passavo metà delle mie giornate a casa sua, e conoscevo la sua famiglia e anche gli altri parenti», racconta. «Crescendo, col passare del tempo, dai Transfomer a Nintendo, le cose che mi piacevano di più erano sempre giapponesi».

Pixorama del collettivo eBoy

Verso est

Al contrario di Kazdal e MacDonald, Cuthbert non è cresciuto innamorandosi della cultura giapponese, per cui è un po’ ironico che, ancora giovanissimo, si sia ritrovato in Giappone a lavorare per Nintendo alla realizzazione di X, uno dei pochi giochi per Game Boy a usare una grafica wireframe in 3D.

In seguito sarebbe arrivato anche Star Fox per il Super Nintendo, che sfruttava il chip Super FX progettato da Argonaut. Considerata l’importanza delle tecnologie fornite a Nintendo da Argonaut, non sorprende la facilità con cui il suo staff arrivò in Giappone senza nessuna conoscenza pregressa del paese o della lingua. Cuthbert crede che essere straniero gli abbia permesso di eludere molte delle tipiche formalità giapponesi. «L’unico problema fu con i documenti», racconta. «Poiché non avevo una laurea, fu molto difficile ottenere un visto di lavoro». In qualità di dipendente della Argonaut, riuscì a ottenere un visto durante lo sviluppo di Star Fox. Più tardi, dopo essere passato a Sony negli Stati Uniti, trovò il modo di tornare nei loro uffici giapponesi con un visto di trasferimento, per occuparsi della “duck demo” di PlayStation 2.

Il primo viaggio in Giappone di Kazdal avvenne nell’ambito di un programma di interscambio universitario, e fu allora che si innamorò del paese. Poco dopo la laurea, nel 1988, ebbe modo di incontrare Tetsuya Mizuguchi, e venne invitato a Tokyo per un rave psy-trance nei boschi. Seguì l’opportunità che capita una sola volta nella vita: Kazdal entrò nella nuova divisione Sega guidata da Mizuguchi, la United Game Artists, responsabile di classici d’avanguardia come Space Channel 5 e Rez. «Penso che Mizuguchi-san, portandomi alla UGA, avesse l’intenzione di inserire un nuovo talento e un punto di vista occidentale», dice Kazdal.

È stato senz’altro un salto nel vuoto, soprattutto perché conosceva davvero poco il giapponese. «Non ci avevo proprio pensato. Conoscevo qualche parola, ma era terribile, per cui quando mi sono ritrovato lì e mi sono reso conto di essere l’unico occidentale in mezzo a cinquanta giapponesi, pensavo “non ho idea di cosa accada durante queste riunioni!”». Anche se fu un primo anno difficile, c’erano alcuni vantaggi, perché la UGA si trovava nel quartiere frenetico e alla moda di Shibuya, e non presso gli uffici Sega di Haneda. «Tutti erano gentili e amichevoli con me», aggiunge. «C’erano persone molto pazienti che mi hanno preso sotto la propria ala e mi hanno aiutato spiegandomi le cose. Durante le riunioni prendevo una marea di appunti sulle cose che non capivo, poi facevo delle conversazioni faccia a faccia molto più lente sui temi di cui si era parlato. In pratica prendevo una lezione privata di giapponese da tutti quanti ogni giorno».

L’amore per il Giappone di MacDonald, seguendo una strada diversa, lo portò invece prima a studiare giapponese all’università, poi a intraprendere una carriera come giornalista videoludico, scrivendo in particolare per Electronic Gaming Monthly, dove diventò il punto di riferimento per i giochi prodotti in Giappone, coprendo sia i titoli di importazione che eventi come il Tokyo Game Show. Solamente nel 2007, tuttavia, si è trasferito in Giappone e ha iniziato a lavorare nel settore videoludico occupandosi di localizzazioni per la 8–4.

L’azienda era stata fondata da due giapponesi e da un socio occidentale, il suo ex collega di EGM John Ricciardi, e perciò secondo MacDonald aveva «una mentalità molto occidentale, ma allo stesso tempo profonde radici giapponesi. Ogni decisione importante veniva presa partendo da una prospettiva o da una cultura, ma passando per l’altra». Poiché 8–4 ha iniziato traducendo i giochi giapponesi in inglese, il suo staff era interamente composto da emigrati di lingua inglese. Ciò sarebbe cambiato in seguito, quando la compagnia iniziò anche a tradurre in giapponese giochi occidentali, come Undertale.

In Giappone per sempre

Il settore dei videogiochi in Giappone è un ambiente ristretto, così intorno al 2015 MacDonald si trovò a fare da consulente esterno per Mizuguchi, il cui nuovo studio Enhance stava sviluppando il titolo in realtà virtuale Rez Infinite. Alla fine lasciò 8–4 proprio per diventare uno dei producer del gioco, e attualmente la sua posizione in Enhance è quella di vice-president of business development and production.

Anche se una clausola di non concorrenza con Argonaut impedisce a Cuthbert di essere assunto a tempo pieno in Nintendo, Kyoto fece una tale impressione su di lui da portarlo a voler tornare dopo il suo passaggio a Sony. «Dalla settimana in cui sono arrivato, Kyoto mi è sembrato il posto giusto per me», racconta. «Qualcosa della sua lunga storia mescolata con valori moderni e cosmopoliti, oltre a un piacevole ritmo di vita. Chi lascia Kyoto anela fortemente a tornare».

Nonostante esistano casi di emigrati che lavorano nei principali studi giapponesi, praticamente nessuno è mai riuscito a scalarne le gerarchie come un Miyamoto o un Nagoshi. Cuthbert aveva però una motivazione più semplice per voler lasciare Sony. «Ho sempre voluto aprire uno studio mio», dice. «Dall’età di circa 13 anni avevo già iniziato a disegnare loghi per “Unique Productions”. Alla fine ho usato solo la Q da quel nome». Un emigrato che apre un suo studio in Giappone è senz’altro una rarità, e Q-games è stato pionieristico in questo senso, come pure Vitei, sempre a Kyoto, fondato da Giles Goddard, ex dipendente di Argonaut e Nintendo. Anche Kazdal si sarebbe unito a questo gruppo con il suo studio 17-Bit, arrivandoci però in maniera diversa, avendo prima aperto i battenti negli Stati Uniti.

Scottato dal lungo tempo passato in Sega, si sentì anche obbligato a tornare a studiare design per migliorare le sue competenze (ha parole di ammirazione per i suoi colleghi giapponesi: «hanno tante procedure per identificare i loro obiettivi e per metterli in pratica attraverso il design, mentre io in sostanza improvvisavo»). Pur avendo intenzione di tornare a vivere e a lavorare in Giappone, aveva anche altre priorità: «Ho fatto dei colloqui con alcuni studi giapponesi, ma o lo stipendio era troppo basso o le ore di lavoro erano eccessive. Volevo smettere di non avere una vita, desiderato passare del tempo con la mia famiglia». Dato che la grandezza dei team di sviluppo e dei budget aumentavano di pari passo, era evidente che non avrebbe più avuto una voce in capitolo e un impatto su un grande franchise paragonabili ai suoi anni alla UGA.

Lavorando come concept artist presso la Electronic Arts negli Stati Uniti, invece, Kezdal iniziò a collaborare con altri colleghi su un progetto che sarebbe diventato lo strategico a turni Skulls of the Shogun, pubblicato con la sua 17-Bit. «A quel punto lo studio si costituì davvero, e passammo allo sviluppo di Galak-Z, e la squadra in seguito è cresciuta», spiega, aggiungendo di aver detto ai suoi colleghi di aver intenzione di trasferire l’azienda in Giappone alla prima opportunità. «Per alcuni ci è voluto un po’—l’ultimo è arrivato qui solo di recente, e sono passati più di cinque anni ormai!». Sembra un caso fortuito che 17-Bit abbia raggiunto Q-Games e Vitei a Kyoto, ma in realtà Cuthbert nelle fasi iniziali ha aiutato Kazdal a destreggiarsi tra tutte le scartoffie legali, presentandogli avvocati specializzati in immigrazione, intermediari e commercialisti. «Avevamo un punto di approdo molto accogliente, e aveva senso aprire uno studio qui dove lo stile di vita è più rilassato e naturale», dice.

Pixorama del collettivo eBoy

Gli emigrati oggi

Grazie anche a questo tipo di supporto e al senso di comunità tra sviluppatori emigrati, il settore dei videogiochi in Giappone oggi è più internazionale che mai, e alcuni team indipendenti non giapponesi e persino studio occidentali come Riot Games hanno aperto i loro uffici nel paese. Ciò nonostante, Cuthbert consiglia comunque a chi avesse in mente di trasferirsi in Giappone di informarsi prima sulla cultura e sulle procedure. «Se arrivi per lavorare come indipendente, lo avresti potuto fare praticamente in ogni altra parte del mondo», dice. «Penso sia meglio venire in Giappone e imparare come integrarsi in un’altra cultura, molto diversa dalla propria».

Proprio come le tecnologie a cui stava lavorando Argonaut si sono rivelate preziose per Nintendo, avere esperienza con strumenti di sviluppo come Unity e Unreal Engine spiana la strada per inserirsi nel settore. «Puoi avere dipendenti che conosco alla perfezione Unreal e nemmeno parlano giapponese», spiega MacDonald. «I grandi studi dicono semplicemente “ok, prenderemo un interprete”, oppure “ci accontenteremo di poter comprendere solo la metà di quello che dicono, e ne varrà comunque la pena”». Con tanti emigrati in grado di incontrarsi per fare rete e sostenersi a vicenda, senza contare il contributo che possono dare le moderne tecnologie, il Giappone è probabilmente un luogo più accessibile agli stranieri rispetto a due o tre decenni fa, ma MacDonald crede si tratti di un’arma a doppio taglio. «Se senti nostalgia di casa, puoi aprire Google Hangouts, oppure usare una VPN per guardare gli stessi programmi televisivi che avresti visto a casa», aggiunge.

«In questo modo però può diventare molto facile non assorbire la lingua o la cultura. Se non hai interesse a imparare queste cose, non credo potrai fare bene all’interno di un’azienda giapponese». Questa è una delle ragioni per cui Kazdal ha voluto creare un evento fisso a Kyoto, invitando non solo emigrati, ma anche studenti universitari locali e grandi realtà giapponesi come Nintendo e Capcom (anche se inevitabilmente la pandemia ha messo in pausa queste iniziative). «Sono uno dei fondatori di Otaru, che ancora di svolge a Tokyo, dove sviluppatori e appassionati di videogiochi si incontrano ogni settimana», racconta. «Ma vogliamo provare a far interagire ancora di più sviluppatori giapponesi e stranieri, facendogli scambiare più spesso idee e fonti di ispirazione».

Restituire qualcosa al Giappone

Persino un apripista come Cuthbert non si è accontentato di aver stabilito il proprio studio in Giappone e di aver collaborato a lungo con Nintendo e Sony, ma ha fatto un passo ulteriore per aiutare i nuovi arrivati a inserirsi nel settore. Ha iniziato a farlo in collaborazione con James Mielke (anche lui un ex redattore di EGM passato alla produzione di videogiochi) alla fine del 2012, dopo un deludente viaggio al Tokyo Game Show. «Eravamo tristi di non vedere rappresentato il mondo indipendente, cioè “noi”», spiega Cuthbert. «C’erano solamente i grandi publisher con i loro grandi titoli, e sulla strada del ritorno abbiamo iniziato a chiederci se non potessimo creare un evento più interessante per persone come noi».

Un articolo apparso su
Wireframe #50
Tradotto da
Gilles Nicoli
Data della pubblicazione originale
6 maggio 2021
Così l’anno successivo si è svolto il primo BitSummit. All’inizio era solo un piccolo raduno per addetti ai lavori a cui partecipavano meno di 200 persone, ma negli anni seguenti il pubblico ha raggiunto l’ordine delle migliaia, e l’edizione del 2019 ha visto più di 17.000 ingressi, secondo una traiettoria ascendente simile a quella dell’EGX Razzed inglese, con il supporto dei maggiori publisher internazionali, tra cui Nintendo, PlayStation e Devolver. Mentre la rappresentanza era inizialmente giapponese per circa il 70%, il BitSummit col tempo ha guadagnato una dimensione più internazionale.

Il Giappone ha personalità e studi indipendenti di spicco come Swery, Suda51 e Yoshiro Kimura, ma la maggior parte degli espositori sono “doujin” (sviluppatori che realizzano giochi per hobby, mirando a divertirsi piuttosto che a guadagnare) e questo dimostra quanto la scena indie giapponese debba ancora decollare in confronto all’occidente. Questo cambiamento è un obiettivo di MacDonald, cofondatore di una nuova iniziativa chiamata Asobu. Nata in origine al solo scopo di creare uno spazio libero condiviso nell’area di Shibuya, spera possa essere un primo passo per rendere più facile diventare uno sviluppatore indipendente in Giappone. «All’inizio si è trattato di costruire una comunità attorno a uno spazio fisico in cui la gente potesse incontrarsi e lavorare, imparare, fare seminari e conoscere altre persone con gli stessi interessi», spiega. «Si può collaborare insieme, insegnare come occuparsi di marketing o di pubbliche relazioni, come testare i giochi in maniera specifica per l’occidente o come localizzare, quali sono le pratiche migliori. C’è un mercato molto più grande di quello giapponese».

Con la pandemia è stato ovviamente necessario adattarsi, ad esempio con un server su Discord, e questo ha anche aiutato a raggiungere altre aree del paese. Ma se il grande showcase inaugurale e digitale di Asobu, che si è svolto prima del Tokyo Game Show del 2020, dà qualche indicazione, la scena indipendente giapponese è pronta a brillare. Il fatto che ad aiutarla siano gli emigrati, i nuovi arrivati, è una felice quanto inattesa scoperta. “L’idea è di restituire qualcosa”, dice MacDonald. «Amo i giochi e il settore videoludico del Giappone, e in questo momento c’è tanto potenziale inespresso».