La storia di Tomb Raider in cinque immagini

Un viaggio nella pentalogia che ha tenuto a battesimo (e sepolto) Lara Croft.

Lo sappiamo: durante il lockdown, siamo regrediti a uno stato infantile già a cominciare dalla seconda o terza giornata di reclusione. Quel che non sono riuscito a prevedere è che la mia involuzione andasse avanti per così tanto tempo dopo la quarantena. Mentre mi faccio un esame di coscienza, vi dico che questo articolo nasce da quei giorni di strade deserte e spostati al balcone, durante i quali il Facebook volava altissimo manco fossimo tornati nel 2014. Muove i primi passi a marzo, ma conosce una gestazione di otto mesi. Mentre altri (magari voi) installavano The Sims o aprivano canali Twitch subito dopo abbandonati, la mia specifica forma di ritorno al passato è stata rigiocare la pentalogia che ha tenuto a battesimo (e sepolto) Lara Croft, screenshottando ogni scorcio che appagava il mio senso estetico e titillava la mia nostalgia.

Decine di ore di gioco mi hanno quantomeno consentito di riflettere, dal futuro, su Tomb Raider; Tomb Raider II: Starring Lara Croft; Tomb Raider III: Adventures of Lara Croft; Tomb Raider IV: The Last Revelation; Tomb Raider Chronicles. E mentre penso a quanti soldi avrei guadagnato lavorando per tutto il tempo che ho passato al PC, vi invito a dare un’occhiata a questo longform. Potete saltare direttamente all’analisi del Tomb Raider che preferite o cominciare dall’inizio per avere il senso (spero) di quanto difficilmente Core abbia tentato di cambiare una formula che si è subito presentata con grosse limitazioni, sempre più pesanti man mano che i vari Zelda e Metal Gear Solid imponevano i propri standard qualitativi al più ampio panorama del gaming.

Ogni capitolo parte da un’immagine e si sviluppa in un ragionamento. Alla fine del lungo replay mi è rimasta una domanda: mi sembra che lo spirito del tempo non abbia steso su Tomb Raider lo stesso velo di nostalgia con cui sono ricordati Resident Evil 2, Final Fantasy VII, Spyro, Crash o Medievil, ognuno dei quali ha avuto l’onore di ricevere un remake. Perché? A questo non ho risposte. Magari le troverete voi, contestando o articolando le mie osservazioni. Cominciamo.

Tomb Raider (Fonte: screenshot)

Tomb Raider

Sono un boomer dei videogiochi. Se vedo un titolo “multiplayer only” mi purifico ripetendo i titoli del Demo Disc di PlayStation come se stessi recitando il Rosario. La mia vita sociale in-game è pari a quella di Tom Hanks in Cast Away (sono anche amico di un bot di nome Wilson). Essendo un gaming boomer, ricordo un tempo in cui l’informazione non era così pervasiva e poteva capitare di venire a conoscenza di un film soltanto dopo aver visto il trailer al cinema. Per la stessa ragione, mi capitava di comprare i videogiochi a scatola chiusa, magari per il fatto di essere entrato nella traiettoria di un passaparola che suonava più o meno così: “Hai giocato a Tomb Raider? È bellissimo, provalo”.

Quando a Tomb Raider poi ci giocai, non ero sicuro di cosa sarebbe successo inserendo il disco nella console. Quel che vidi mi piacque molto, ma proprio quando pensavo di aver afferrato le regole del mondo in cui Core mi aveva catapultato, un’esperienza in-game, poi entrata nella memoria collettiva come uno dei momenti fondanti della storia dei videogiochi, mi costrinse a ridisegnare i confini delle avventure di Lara Croft.

Breve premessa. Un forte senso di realismo pervade Tomb Raider. Soprattutto se lo paragoniamo agli standard dell’epoca. Lara si muove in ambienti simili al vero (sempre per l’epoca—è l’ultima volta che lo ripeto, quindi tenete a mente il contesto per tutta la durata di questo ragionamento). Non dipende solo dal fatto che le architetture, nei livelli, sembrano stare in piedi da sole. O che i nostri nemici siano lupi, pipistrelli e orsi: minacce non solo virtuali, se abitate in Siberia. Ciò che rende i vagabondaggi di miss Croft verosimili è la fisicità dell’avatar. Lara è atletica, certo, ma non fa nulla di acrobaticamente impossibile. Se cade da un’eccessiva altezza può morire e quando si solleva su una sporgenza con il solo ausilio delle mani emette un gemito per lo sforzo. Mentre giochiamo, percepiamo la forza di gravità e per questo ci sentiamo davvero in qualche angolo inesplorato del pianeta Terra.

C’è un momento in cui l’illusione di trovarsi su questo stesso pianeta vacilla, ma non si rompe. All’inizio del terzo livello di Tomb Raider (1996) ci caliamo in una valle rigogliosa, che possiamo osservare in tutta la sua esotica bellezza fino ai due metri di profondità di campo consentiti dalla potenza di elaborazione delle macchine da gioco dell’epoca. Mentre puntiamo lo sguardo su poligoni grossi quanto un pugno e texture stiracchiate dai colori squillanti, forse non ci siamo accorti dei due velociraptor più in là che si dirigono verso di noi. Stenderli entrambi sarà difficile, ma non appena tiriamo un sospiro di sollievo, il pavimento inizia a sussultare. Da lontano arrivano i tonfi pesanti e cadenzati di un’enorme creatura. Un verso potentissimo e assordante ci scuote dalla testa ai piedi. Il resto è storia (dei videogiochi).

È la prima volta in cui l’intero franchise di Tomb Raider si apre al fantastico. Fino ad ora abbiamo assistito a qualche iperbole, perfettamente spiegabile come escamotage per rafforzare il gameplay. Ma un T-rex, beh, chi se lo aspettava. È interessante notare come gli sviluppatori abbiano collocato questo paradosso (pre)storico in un mondo sorretto da solide regole, e veritiere, in modo che le porzioni di gioco “credibili” compensino l’apparizione di esseri mitologici, mostruosi o estinti. Il risultato è che, quando il sipario si solleva sull’impossibile, non ci sentiamo in un parto dell’immaginazione, ma in un recesso inesplorato del terzo pianeta del Sistema Solare. Ad esempio in una valle sotterranea nel Perù non civilizzato, dove, per una misteriosa alchimia di condizioni naturali, i dinosauri sono riusciti a sopravvivere e riprodursi.

Tomb Raider II: Starring Lara Croft (Fonte: screenshot)

Tomb Raider II: Starring Lara Croft

Se il momento che definisce Tomb Raider è la lotta contro il T-rex nella valle dei dinosauri, Tomb Raider II ha segnato la memoria dei videogiocatori con i livelli ambientati nel doppione virtuale della città dei canali, perla dell’Adriatico, comune del Doge, Serenissima, Amsterdam del Sud con i tramezzini al posto delle droghe, città in cui tutti dovrebbero pomiciare almeno una volta nella vita.

Tuttavia la Venezia di Lara sconta il difetto delle ambientazioni artificiali in Tomb Raider. La ricca ereditiera si muove su una griglia il cui modulo-base misura tot passi di lunghezza per tot di larghezza. Di conseguenza, gli spazi sembrano costruiti con Minecraft. È uno dei due aspetti più imbarazzanti agli occhi del gamer contemporaneo. Per inciso, l’altro sono i controlli tank, cioè un set up di movimenti che consente di spostare l’alter ego virtuale in avanti e indietro, o di farlo ruotare su se stesso. Come un carro armato, appunto. In Tomb Raider le strutture artificiali tendono a rivelare fin troppo chiaramente la sottostante griglia modulare. Piani inclinati e profili irregolari, insieme a caratteristiche del bioma come siepi, rampicanti o radici, aiutano invece la resa della natura, nei livelli all’aperto. Venezia purtroppo rientra nella prima categoria.

Il merito del primo quadro in Italia, secondo in assoluto, di Tomb Raider 2, intitolato Venice, mi sembra un’idea di fondo di livelli non direzionati, da percorrere avanti e indietro con un’esplorazione non lineare ma circolare. A volte capita di raccogliere una chiave che apre una porta dalla parte opposta del quadro, altre volte, invece, bisogna tirare una leva che altera lo scenario in un punto molto lontano.

Venezia è l’apoteosi della concezione di spazio unitario, da esplorare prendendo ogni volta direzioni diverse: corridoi nascosti, fessure occultate dalla superficie dell’acqua, botole e porte che rispondono a meccanismi di apertura piazzati chissà dove. C’è poi almeno un enigma molto difficile, che fa leva proprio sulla capacità del giocatore di ricordare quanto si è appena lasciato alle spalle. Naturalmente è impossibile negare che scorrazzare in motoscafo come coatti per Venezia, mentre in sottofondo suona una musica ispirata a Vivaldi, è appagante per l’occhio e per lo spirito. Io addirittura ho visto le gondole e i palazzi barocchi di Core prima dei loro equivalenti nel mondo reale, e ogni volta che ritorno nel capoluogo Veneto non posso fare a meno di pensare: “Oh, l’hanno fatto davvero uguale al livello di Tomb Raider”.

Tomb Raider III: Adventures of Lara Croft (Fonte: screenshot)

Tomb Raider III: Adventures of Lara Croft

Cose che ho fatto portando a termine il più bel livello di Tomb Raider III: 1) nuotare con le orche 2) scoprire che gli alieni esistono 3) lanciare una testata nucleare perché se no tipo non potevo passare 4) contemplare il tramonto. Poi mi sono accorto che era mezzogiorno e il cielo era rosso a causa dell’apocalisse atomica provocata dal mio bombardamento.

Il livello più bello di Tomb Raider III coincide con l’ultimo atto della porzione di gioco ambientata in Nevada. Si intitola “Area 51”, perché è ambientato nell’Area 51. Sì. E ogni volta che lo rigioco arrivo puntualmente alla stessa conclusione: Tomb Raider III è il miglior Tomb Raider di sempre. Vi spiego perché.

Il combat system di Lara Croft funziona molto bene. Volare sulla testa di un nemico, scavalcandolo, e rotolare con una capriola una volta atterrati per aggredire l’avversario alle spalle è una sfida che si rinnova a ogni sessione di gioco. Ma il focus dell’avventura non sono gli scontri. Le parti più interessanti di Tomb Raider sono tutte focalizzate sull’esplorazione. Solo quando non so più dove andare e vago per decine di minuti alla ricerca di un appiglio nascosto, mi sento coinvolto al punto da dimenticare che esisto come entità autonoma e distinta da Lara Croft.

Più di tutti gli altri capitoli, Tomb Raider III valorizza lo spazio. Soprattutto in India o in Indonesia, un labirinto di percorsi naturali che si diramano e si arrotolano su se stessi tramite cunicoli e scarpate. A dire la verità, l’esplorazione dell’Area 51 è piuttosto direzionata e non capiterà spesso di tornare indietro per allargare le ricerche alle zone circostanti. In compenso l’ultimo atto del Nevada è una continua scoperta: prima il fatto che beh, siamo entrati nel posto più segreto al mondo, almeno tra quelli ammantati di cospirazionistico mistero. Una volta lì, ci capiterà di lanciare un missile, nuotare con le orche e, in una scenografia molto evocativa, scoprire i cadaveri di due alieni per poi entrare nella navicella spaziale con cui gli esserini, adesso conservati nell’ammonio, si sono schiantati in qualche sperduta campagna del Tennessee (avrei potuto evitare la carrellata di spoiler, ma dopo 22 anni il reato di rivelazione di segreto di trama va in prescrizione).

Il tipo di messa in scena è sempre lo stesso: gli extraterrestri ci vengono mostrati alla fine, mentre il resto del livello è identico allo stereotipo di una base militare super segreta così come possiamo osservarla in un film di spie. Non ci capiterà di affrontare gli alieni in combattimento, né di vederli camminare per i laboratori. Insomma, dalle parti di Core hanno usato ancora una volta il contagocce, anche se il contesto sembrerebbe incoraggiare a tirar fuori dal cappello ogni razza di fantasticheria. Così, noi, a quegli alieni, ci crediamo. I want to believe, Mr Mulder. Anche se prevedibile, la scoperta di ET è un colpo al cuore. Nonché l’ultimo di una galleria dei momenti segnanti dell’intero titolo: nuotare al tramonto nell’oceano Pacifico; ritrovarsi davanti a una statua che prende vita, in India; addentrarsi in una cittadella nascosta nei ghiacci dell’Antartide o saltellare sui tetti di Londra di notte, sullo sfondo la sagoma evanescente della cattedrale di Saint Paul.

Tomb Raider IV: The Last Revelation (Fonte: screenshot)

Tomb Raider IV: The Last Revelation

Personalmente considero lo stile grafico della saga di Tomb Raider perfettamente rappresentativo della rivoluzione tridimensionale della seconda metà degli anni Novanta. Breve premessa: non credo che i poligoni dell’era del 32 bit siano vecchi, o superati, o brutti, buoni soltanto a cullare i videogiocatori trentenni sui ricordi. Un quadro non deve necessariamente ritrarre la realtà per acquistare valore. Allo stesso modo, la grafica di un videogioco non dovrebbe essere valutata sulla base di quanto assomigli alla cosa vera. È un discorso scontato, considerato il numero di indie game che puntano “all’artisticità” della componente visiva.

Meno ovvio è applicare lo stesso metro di giudizio alla grafica di ogni fase dell’evoluzione del medium interattivo. Certo, spesso gli sviluppatori dei decenni passati tentavano soprattutto di avvicinarsi a una resa fotorealistica, o comunque non “espressiva”, di ambientazioni e personaggi, ma oggi quelle stesse rappresentazioni ci sembrano approssimative e incapaci di favorire l’immedesimazione di un videogiocatore abituato a standard tecnologici molto più avanzati. Può la grafica a 32 bit essere considerata uno “stile”? Un particolare metodo di raffigurazione della realtà, pur dettato da limitazioni e non da un lavoro consapevole di sintesi? Io credo di sì. La prova sta nel fatto che i primi tentativi di 3D hanno ispirato citazioni (come il retro-shooter DUSK) o rielaborazioni in chiave moderna (la grafica low poly).

Se quindi gli assembramenti di poligoni della prima PlayStation hanno un valore formale, allora quella di Tomb Raider può essere definita una peculiare estetica. Soprattutto nei livelli all’aperto, una tecnologia datata, ma per l’epoca all’avanguardia, tenta di riprodurre il suo negativo, cioè la natura incontaminata. Nella testa del videogiocatore si innesca un cortocircuito provocato dal contatto tra ciò che è primordiale (il deserto e le Piramidi in Egitto) e ciò che si trova all’estremo opposto della Storia del mondo, ed è frutto dell’ingegno dell’uomo (le ambientazioni in grafica in 3D). Tra l’altro si tratta di una tecnologia dai mezzi palesemente insufficienti a stabilire una verosimiglianza. Ne scaturisce un’estetica retrofuturistica e vaporwave: alberi a sezione rettangolare, cespugli formati da due sprite che si intersecano perpendicolarmente, tramonti troppo colorati per non sembrare dei cartelloni piazzati sullo sfondo, acqua che scorre in poligoni animati solo sulla superficie. Questo è Tomb Raider.

The Last Revelation satura i colori fino ad avere un’acqua azzurro elettrico e una lava rosso accecante. Crea improvvisi lampi di luce blu o rossa che si mescolano al riflesso verde acido sprigionato dall’accensione di un bengala (che qui, per la prima volta, non emana un bagliore neutro). Durante gli ultimi livelli, i riferimenti cromatici sono così scombinati che potremmo avere l’impressione di essere incappati in un bug. Il cielo della Città dei Morti è verde putrescente, mentre quello del complesso delle piramidi di Giza, subito dopo, è fin troppo rosso per un tramonto, forse è un’apocalisse. Piuttosto ci sembrerà di essere entrati in un trip acido di Lara o in una di quelle rappresentazioni surrealiste in cui gli oggetti vagano fuori contesto e il tempo sembra essere congelato per sempre. È un po’ l’effetto della vaporwave, ma prima della vaporwave. Il rovescio della medaglia è la rottura di quel delicato gioco di contrappesi tra verità e immaginazione, tra l’altro tipico delle teorie cospirazioniste (e, credo, ragione del loro successo), che consiste nell’introdurre elementi irreali in un contesto reale (un geroglifico che somiglia a un disco volante) per rendere credibile quello che, singolarmente, non lo è (il concetto di extraterrestre sulla Terra).

Se i primi tre Tomb Raider riuscivano (salvo a tratti) a restare in equilibrio sul confine della finzione, dando al giocatore l’impressione di non essere in un mondo inesistente, ma in qualche angolo remoto di questa stessa Terra, in The Last Revelation si ha continuamente la sensazione di esplorare il sogno di uno sviluppatore, tra scheletri che prendono vita, fenomeni meteorologici incredibili, scorpioni giganti e tecnologie impossibili nell’antichità.

La novità più interessante di The Last Revelation è l’apertura dei livelli. È possibile ritornare in un’ambientazione precedente attraverso una schermata di caricamento. È una scelta che rafforza la componente esplorativa dei titoli Core e che purtroppo viene davvero valorizzata solamente dalla seconda metà del gioco (praticamente da Coastal Ruins in poi, per tutta la parte di gioco ambientata al Cairo e a Giza), quando i veicoli diventano un mezzo per risolvere gli enigmi e non solamente una variante del gameplay. La scelta di ambientare l’intero capitolo in Egitto appare limitativa rispetto alla varietà degli ecosistemi: la Città dei Morti è sicuramente molto diversa dall’interno dei templi, ma le differenze tra Venezia e i livelli sottomarini di Tomb Raider II, o tra l’India e l’Antartide del terzo capitolo sono sicuramente più marcate e affascinanti.

Tutto sommato, The Last Revelation è un capitolo di rottura. Il coraggio degli sviluppatori di fare delle scelte per espandere i confini della precedente trilogia produce alti e bassi, ma a tratti si apprezza sia un’estetica portata alle sue estreme conseguenze, sia il potenziale di livelli non slegati e percorribili anche dopo aver avuto accesso a una nuova area. La sintesi migliore tra i vantaggi e i difetti del nuovo approccio è la Città dei Morti. Il viaggio allucinogeno attraverso gli antichi ruderi dell’Egitto non si è ancora spinto oltre i limiti della verosimiglianza e un interessante mash-up di archeologia e architetture industriali si articola in prospettive da screenshot, mentre l’organizzazione degli spazi in un continuum non direzionato eleva al cubo le possibilità esplorative. Per un attimo si annusa un capolavoro.

Tomb Raider Chronicles (Fonte: screenshot)

Tomb Raider Chronicles

La fenomenologia dei discorsi dell’esperto X che discute la cosa Y di cui appunto è esperto, prevede un sorprendente rovesciamento del senso comune riguardante la cosa Y. Se l’esperto fossi io (ma non lo sono) e la cosa Y fosse il capitolo più bistrattato della saga di Lara Croft, questo sarebbe il momento ideale per sorprendervi e annoiarvi tutti con una tirata sul perché Chronicles è stato ingiustamente sottovalutato. Segue un richiamo all’urgenza di revisionismo. La verità è che i recensori dell’anno Duemila ci hanno visto giusto: il quinto capitolo non è bello quanto i precedenti.

Chronicles in realtà è come lo vedi, e la prima cosa che vedi del gioco è una grafica peggiore di The Last Revelation. Come è successo? Quante possibilità c’erano che, almeno da un punto di vista tecnico, la progressione qualitativa non fosse né lineare, né stabile, ma addirittura invertita? È come se sulle ambientazioni fosse calata una cappa di fumo che ha spento tutti i colori, ingrigendoli. Le texture sono monotone e sgranate, al punto da rovinare il godimento estetico che fin qui ha sempre fatto il paio con le scoperte di miss Croft.

Ma Tomb Raider Chronicles non merita neanche l’insufficienza. Nonostante la sciatteria del comparto tecnico e ambientazioni anguste e fin troppo lineari (altro inaspettato passo indietro) è animato da una forte tensione ad allargare i confini del gameplay. Fin dal primo episodio, Tomb Raider è stato un mash-up di generi, che, negli anni Novanta, erano ancora distinti e separati. I grattacapi degli sviluppatori riguardavano il modo migliore di tradurre le formule di gioco preesistenti in mondi virtuali con una dimensione in più. E poi nuovi generi stavano per nascere: il survival horror (diventato mainstream con Resident Evil) e lo stealth game di Thief, Tenchu e Metal Gear Solid.

Invece Tomb Raider è già dall’inizio un crocevia di soluzioni di gioco. Nel 1996, Core confeziona un’avventura in terza persona che è anche un po’ action. E che, nonostante un impianto realistico, contiene più di qualche elemento platform. Per i sequel si cerca un bilanciamento ogni volta un po’ diverso: più action Tomb Raider II, più adventure il terzo capitolo. The Last Revelation aggiunge un accenno di open world (nel frattempo valorizzato da Super Mario 64) e un tocco di avventura grafica: la possibilità di combinare gli oggetti all’interno dell’inventario e di interagire con parti dello scenario diverse da leve e interruttori. Se i primi tre Tomb Raider sono la carbonara, e il quarto episodio una carbonara con panna, Chronicles è uno di quei pasticci che solo un appassionato di cucina italiana all’estero potrebbe combinare, nel tentativo di aggiungere qualcosa in più al tipico piatto romano.

Durante la quinta installazione, controlliamo Lara Croft in sezioni completamente sott’acqua, alla Treasures of the Deep, a cui quelle parti di gioco si richiamano anche a livello estetico. Scaraventati in un altro flashback, dovremo cavarcela senza sparare un solo proiettile (qui Lara è minorenne), un espediente non inusuale nei Tomb Raider (anzi, una convenzione stabilita per tutti gli episodi successivi al secondo) ma mai per così a lungo. Qui il richiamo è al senso di vulnerabilità dei survival horror. L’ultimo “racconto” è quello più stealth: Lara si infiltra in un grattacielo per recuperare l’Iris, l’artefatto scomparso alla fine di The Last Revelation e quando non può fare affidamento sulle armi da fuoco, si nasconde dai nemici o sgattaiola alle loro spalle, come un certo Solid Snake.

Mi sembra quasi che Chronicles sia una specie di esperimento consistente in una serie di variazioni sul tema, però abbozzate, non rifinite abbastanza da funzionare. Una serie di prove tenute insieme da una debole struttura a racconti per accennare altrettante strade che il franchise avrebbe potuto percorrere, ma che non si sono realizzate perché Lara è morta (in senso letterale: la storia di Chronicles si apre con il funerale della protagonista). Un insieme di idee e allo stesso tempo una sintesi sia di quanto (tantissimo) la terza generazione di console ha aggiunto al panorama del gaming. C’è lo stealth, l’avventura, il punta e clicca, il platform, l’action e il survival horror. Facciamo un passo avanti: a ogni sfumatura di gameplay è associato un concept ispirato o a un genere cinematografico o a una precisa serie di film di successo.

Il primo flashback, Roma, è Tomb Raider che cita se stesso, cioè i livelli ambientati a Venezia. Seguono alcuni stage in un sottomarino, influenzati dagli action muscolari ancora molto in voga negli anni Novanta, quelli in cui i nemici erano sempre i russi. Quindi si torna ai primi anni di vita dell’archeologa inglese: quella della piccola Lara è un’avventura dai toni horror-gotici. L’ultimo ricordo mette in gioco più di tutti le dinamiche stealth: Lara è vestita come Tom Cruise in Mission Impossible e come John McClane usa i condotti di aerazione di un grattacielo per trovare una via di fuga. L’unica arma a nostra disposizione, spesso tra l’altro non equipaggiabile, è un fucile con tre modalità di fuoco. Ci sono persino un rampino e degli occhiali a raggi X. Credo che i livelli finali siano i più iconici e strani di Tomb Raider Chronicles. Non solo perché sono i più eccentrici rispetto a quello che noi siamo abituati a definire “Tomb Raider”, ma anche perché si propongono come una sintesi non solo del gaming, ma anche della cultura pop degli anni Novanta. Allo stesso tempo, mettono una pietra tombale (letteralmente) sugli anni d’oro della saga Core, lasciando intravedere qualcosa di ciò che Tomb Raider sarebbe potuto essere ma non sarà mai. Perché Lara Croft è morta e Tomb Raider è finito. Come questo articolo.