1979 Revolution: rileggere la storia con i videogiochi

Dentro la rivoluzione iraniana, tra tortura, manifestazioni e spiritualità.

A leggere il bellissimo articolo di Nathan Greyson, sembra che Geoff Keighley, organizzatore dell’evento, sia stato decisamente colto dalla celeberrima maledizione cinese: “Che tu possa vivere una Summer Game Fest interessante!”. Come immagino saprete, quest’anno, l’evento è stato condito da un simpatico fuori programma: fuori dallo Youtube Theater di Inglewood, Los Angeles, sono scoppiate intense proteste contro l’ICE, l’anti immigrazione. Proteste violente, come non si vedevano almeno da una trentina d’anni, fomentate da un presidente degli Stati Uniti che ha “sorpreso tutti” facendo esattamente quello che aveva promesso di fare fin dall’inizio della sua campagna elettorale: mandare l’esercito per reprimere e colpire i suoi oppositori politici. Chissà quando inizieremo a dar credito a questo pover’uomo!

Tempi interessanti creano però eventi significativi, e la Summer Game Fest di quest’anno si è sicuramente sollevata rispetto a quel senso di plastica inutilità che sembrava ormai circordarla. Il merito, ovviamente, è delle colonne di fumo delle auto in fiamme in strada più che della presentazione dell’ultimo Resident Evil. Questo, però, ha creato un contrasto illuminante su un aspetto particolare del mondo videoludico. Un mondo di attori che chiedono maggiore riconoscimento per il valore culturale dei propri prodotti, un media che vorrebbe essere considerato rappresentativo di una generazione, che vorrebbe vedersi associato a un modo evoluto di creare contenuti di intrattenimento, che addirittura vorrebbe vedersi accreditato come linguaggio, ma che, quando la pressione della realtà diventa impossibile da evadere, si chiude nella suo guscio stroboscopico, rimanendo esitante, balbuziente, imbarazzantemente impreparato, senza molto da dire insomma.

Il punto di caduta è poi sempre lo stesso, un dubbio antico che accompagna tutte le riflessioni sul gioco in generale, da sempre: “Che senso ha creare, giocare, criticare o raccontare videogiochi quando sembra che il mondo stia bruciando?”. Un senso c’è e non è solo quello di dare sollievo o conforto (attività sempre necessarie e benemerite, ben intenso). Chi vuole bene al videogioco deve considerare questo come un momento impossibile da non sfruttare: per quanto spesse siano le mura delle bolle nelle quali viviamo, ormai ogni giorno la realtà sfonda la porta dei nostri recinti dorati immaginari, ed è quindi adesso che bisogna indicare come il videogioco può aiutarci ad affrontarla, a capirla. Altrimenti sarebbe meglio rassegnarsi all’irrilevanza di questo strumento.

In che modo questo è possibile? Non pretendo di indicare chissà quale via maestra, però vorrei provare a lanciare qualche spunto, partendo dalla mia esperienza di gioco con un titolo interessante, 1979 Revolution: Black Friday. Si tratta di un’avventura grafica sviluppata da iNK Stories che no, non parla di Amazon e della rivoluzione del consumismo digitale, ma della Rivoluzione Iraniana, evento storico ancora  assolutamente attuale. Il “black friday” è infatti quello dell’8 settembre 1978, giorno in cui la polizia dello Shah Reza Pahlavi sparò contro la folla durante una manifestazione di protesta uccidendo circa un centinaio di persone. Questo evento fu il detonatore finale della rivoluzione che, in pochi mesi, mise in fuga lo scià e aprì la strada all’instaurazione della Repubblica Islamica dell’ayatollah Khomeyni.

Anticipo subito che si tratta di un titolo abbastanza brutto, con molte sbavature tecniche e, probabilmente, con intenzioni ben oltre i propri mezzi. Eppure si tratta di un titolo interessante, che merita di essere giocato (un paio d’ore in tutto, più il tempo che vorrete dedicare ad analizzare i molti documenti storici proposti). Perchè merita? Prima di tutto perché è interessante ciò di cui parla. La rivoluzione iraniana oltre a essere stato un evento storico chiave nel secondo dopoguerra, è stato un evento diventato paradigma di come rivoluzione e restaurazione siano più vicini di quanto si creda, e soprattutto ha segnato definitivamente il ritorno della religione, della spiritualità, tra gli elementi fondamentali anche per la politica contemporanea. Abbiamo subito una prima indicazione quindi: piuttosto che andare a rimestolare nel cesto dell’ennesimo open world post-apocalittico, del fantasy gotico o art nouveau, sarebbe bello che i designer si ricordassero più spesso che la storia è ricca di eventi eccitantissimi, gravidi di spunti stimolanti in quanto tali, senza bisogno di feticizzazione, come fatto da Ubisoft.

La cosa migliore del gioco è proprio la scelta della sua cornice storico narrativa e il taglio che dà agli eventi storici. Le manifestazioni del black friday, infatti, saranno raccontante come flashback del nostro protagonista, ricordi che emergeranno durante un terribile interrogatorio/tortura che il nostro sta subendo nella famigerata prigione di Evin nel centro di Teheran, non per opera degli uomini dello scià, ormai decaduto, ma per opera degli uomini della Repubblica Islamica. La prigione di Evin è uno dei luoghi con maggiore carica politico/simbolica dell’Iran. Era stata costruita dallo scià per ospitare i suoi efferati servizi segreti, la SAVAK, e fu ereditata dalla repubblica islamica essenzialmente con la stessa funzione, per detenere e torturare oppositori politici; prigionia e tortura come triste linea di continuità tra i due regimi.

1979 Revolution: Black Friday (Fonte: press kit)

Il gioco presenta una tipica struttura narrativa ramificata, in cui ci viene promesso che gli eventi saranno condizionati dalle nostre scelte. Come la norma impone, questo avviene fin dall’inizio. Siamo un rivoluzionario in fuga e dobbiamo da subito decidere la nostra “linea politica”. Di fatto si tratta di scegliere se essere più o meno inclini alla violenza, nulla di particolarmente originale, ma sufficiente per stimolare un’altra riflessione. I videogiochi non sono il miglior strumento per trasmettere un contenuto di conoscenza con pretese di oggettività. Un saggio o una classica narrazione lineare funzionano decisamente meglio, semplicemente perché permettono più facilmente di mantenere la struttura del discorso integra, secondo quanto deciso dall’autore.

I videogiochi permettono di fare un’operazione diversa con ottimi risultati: non mostrare solo “cosa è successo”, ma “come funziona” un momento storico; come, in questo caso, la rivoluzione iraniana agisca in relazione a un soggetto che ovviamente non è un semplice osservatore, ma è chiamato a fare delle scelte e a dare delle interpretazioni. Non si tratta quindi di ricostruire un momento storico, di proporre un contenuto scientificamente elaborato, ma di fabbricare un’esperienza, una finzione, una simulazione, per mostrare come funzionano, secondo l’autore, le dinamiche all’opera in quel momento. Per questo, a differenza di un storia lineare classica, avremo personaggi e situazioni che continuamente ci chiedono conto del nostro orientamento, delle nostre scelte (sei per la lotta armata o per la non violenza? Vuoi tirare un sanpietrino o scappi? Porti una pistola alla manifestazione o ti accontenti della macchina fotografica?), in maniera spesso innaturale o poco verosimile per i canoni della sceneggiatura classica. Tuttavia è importante che ciò avvenga perché questa ricorsività, questa ripetitività, serve a costruire il rapporto di familiarità tra noi “persona” e gli eventi, per tramite del nostro povero avatar digitale. 

In questo modo non stiamo più parlando nemmeno di un evento passato, ma di un evento del tutto presente che, come avviene per l’attualità, ci interessa analizzare e capire in relazione a noi, tenendo sempre in considerazioni noi e le nostre scelte nell’equazione. Attenzione, questo non significa che tutto ci deve essere concesso, ma che il centro non sono gli accadimenti in sè ma i rapporti di azioni/reazione e conseguenze che l’autore vuole mostrarci. Per esempio: abbiamo detto che siamo nel bel mezzo di una tortura, e gli scambi con il nostro aguzzino saranno i più interessanti di tutto il gioco non a caso. Ovviamente sarà forte la tentazione di mostrarsi duri e puri, di stringere i denti e sputare in faccia al nemico la sua ipocrisia. Possiamo farlo e possiamo anche apprezzarne le conseguenze: siamo morti, il gioco è già finito. Ecco cosa “significa” la tortura, come funziona secondo l’autore.

Oppure, un altro momento molto significativo sarà quando un personaggio dalla forte carica spirituale, Saman, un uomo che si dedica ad attraversare le manifestazioni portando su di sè le immagini dei morti, ci chiederà di pregare insieme recitando alcuni versi del Corano pregni di fede ma anche di solidarietà umana. È uno dei momenti più incisivi che mette bene in evidenza come la religione, ostracizzata dalla politica laicista dello scià, non fosse solo un affare per esaltati estremisti, ma una pratica fondamentale per la costruzione dell’identità personale. Se sceglieremo di farlo, però, subito dopo, ritornati nella sala delle torture a Evin, scopriremo che quelle stesse parole saranno usate anche dal nostro aguzzino, troncate e distorte per manifestare la supposta superiorità morale della sua causa e il suo diritto a perpetuare il massimo della violenza possibile. Dimostrare di conoscerle ci darà solo un attimo di sollievo ma, come tutte le speranze in questo gioco, sarà un attimo effimero, non sufficiente a far cessare la sofferenza.

Purtroppo questa efficacia non si ripeterà spesso, il gioco manca dell’elemento principale quando si sviluppa una meccanica del genere: la telegrafia, ovvero la capacità di collegare chiaramente le nostre scelte alle conseguenze mostrate, semmai distanziandole nel tempo, ma mantenendo sempre una linea distinguibile. Il gioco ci propone continuamente opzioni avvertendoci che “Tizio si ricorderà di quello che hai fatto” (alla maniera dei Telltale Games), ma poi raramente si capisce esattamente cosa abbiamo determinato e come. 

Un’altra meccanica che il gioco tenta di implementare e che rappresenta uno strumento che il videogioco potrebbe esaltare, è la narrazione ambientale. Per “narrazione ambientale” si intende presentare gli elementi del racconto non solo come elementi dei dialoghi o situazionali, ma come elementi disseminati nell’ambiente, come documenti e indizi silenti che andranno trovati e “attivati”, durante alcune sessioni di gioco esplorative. Interessante l’idea di unire queste sessioni al racconto delle manifestazioni di piazza durante le quali dovremo cercare di testimoniare gli eventi andando in giro e scattando foto. Il gioco propone così una miriade di fotografie, volantini, pamphlet, locandine, murales che andranno piano piano ad arricchire il nostro classico diario di raccolta documenti. È un’idea non originale, ovviamente, ma che può creare degli effetti molto stimolanti.

1979 Revolution: Black Friday (Fonte: press kit)

Le manifestazioni, per esempio, non sono semplicemente dei “momenti”, ma appaiono come dei piccoli ecosistemi in movimento, nei quali la popolazione cerca di creare spazi di libertà che permettono così di evidenziare molti elementi cardine del passato che hanno condotto il paese fin qui, tracce che ancora hanno un’eco nella situazione attuale. Nei videogiochi c’è sempre il problema di come proporre testi o documenti scritti che, in genere, spezzano il ritmo dell’azione e quindi vengono tralasciati. In un gioco con una forte impronta “storiografica” questo però significherebbe soprassedere su uno degli elementi principali. L’idea di proporli come una “scoperta” del giocatore mi sembra un’idea felice che può creare la giusta predisposizione nell’utente e invogliarlo ad approfondire almeno alcuni aspetti. Io per esempio, che non avevo una gran conoscenza pregressa degli eventi storici, sono stato attirato dalle immagini disseminate qua e là di Mohammad Mossadeq, personaggio spesso citato come perno del desiderio frustrato di indipendenza del popolo iraniano e che, onestamente, non conoscevo. 

Questo ha incoraggiato la mia curiosità meglio di come avrebbe potuto fare una citazione in un saggio, per esempio, e così mi ha spinto ad approfondire una parte della vicenda iraniana che, in genere, viene spesso tralasciata soprattutto dal discorso giornalistico. In breve, l’Iran aveva avuto la possibilità di diventare una nazione laica, moderna e indipendente, ma questi progetti si erano dovuti scontrare con le brame di sfruttamento di UK e USA, seminando quindi un odio “antioccidentale” ben prima dell’opera degli islamisti ancora al potere. Mossadeq, infatti, fu il primo ministro iraniano che nel 1953 cercò di intraprendere una decisa politica di indipendenza dal Regno Unito, che all’epoca deteneva la maggior parte dei diritti di sfruttamento delle risorse energetiche dell’Iran, entrando in aperto conflitto con lo scià, fino a costringerlo, grazie al sostegno popolare, all’esilio a Roma.

Il suo governo, e le speranze del popolo, ebbero però vita breve a causa di un colpo di stato orchestrato da britannici e americani, che videro l’opportunità di affermarsi come potenze egemoni anche in medio oriente, fino a quel momento un po’ fuori dal loro raggio di azione. Nonostante i quasi 30 anni di governo dello scià successivi, anni che videro il governo del monarca diventare sempre più repressivo, quel desiderio di indipendenza rimase forte e carsico nella società iraniana, fino ad animare ancora le proteste anni dopo, quando ancora l’effige di Mossadeq, come ci mostra il gioco, veniva portata come segno di unità delle lotte, in un contesto in cui di unitario c’era già ben poco. Anche qui l’epilogo sarà amaro: sarà infatti proprio l’ayatollah Khomeyni, dopo aver preso il potere sfruttando anche quei sentimenti di indipendenza e orgoglio, a bandire definitivamente il Fronte Nazionale, la formazione politica di cui Mossadeq era stato espressione, solo pochi anni dopo la “riuscita” della rivoluzione. 

Questo tuttavia è solo un esempio personale; gli spunti potenzialmente fruttuosi sono tanti, come le cassette che troveremo in giro con i discorsi di vari esponenti politici, che ci riportano a un modo di trasmissione dei messaggi che oggi sembra alieno. Eppure anche qui gli intenti non sono all’altezza della realizzazione. In queste fasi di gioco la libertà di movimento è molto scarsa, i diversi elementi sono segnalati con enormi “bersagli” e la dinamica dello “scattare la foto” è molto raffazzonata e praticamente teleguidata. Diciamo che tutto questo elemento di “scoperta” è più suggerito che messo realmente in pratica. Tanto basta però, secondo me, per segnare uno spunto importante su come potrebbero essere usati i videogiochi per veicolare questi tipi di contenuto. 

In conclusione, quindi, ci troviamo di fronte a un brutto titolo che nonostante ciò può condurre a un’esperienza di gioco molto significativa, che può indicarci come il videogioco possa darci degli strumenti importanti per affrontare il nostro passato e il nostro presente. Gli eventi non sono mai “narrazioni lineari”, catene casuali di accadimenti legate da un unico filo rosso, ma sono intersezioni di diverse linee di tensione. In modo analogo, anche il panorama che abbiamo davanti non è una tela omogenea ma un mosaico in cui ogni punto è un indizio, una porta verso direzioni plurime. Il videogioco ci permette di riunire tutte queste sfaccettature in una visione unica, come un prisma di cui possiamo vedere contemporaneamente più facce. Ma queste facce non sono semplicemente giustapposte. Questo prisma, quando manipolato, può mostrarci come le dinamiche siano connesse da rapporti di interdipendenza funzionali. Nella scelta di quali rapporti e dinamiche presentare, l’elemento autoriale viene salvaguardato, persino in un oggetto che si modifica in base all’azione dell’utente.

Eppure ciò non significa che il videogioco debba essere per forza il regno degli “universi alternativi”, del “what if” che sostituisce la storiografia; esso può anche mostrarci solo le diverse possibilità che compongono un evento già accaduto. Il gioco, infatti, non ci da la possibilità di deviare il corso della storia, di modificarne i limiti, di uccidere l’ayatollah e salvare l’Iran. Alla fine la storia si riduce a una scelta binaria, nella quale dovremo scegliere se pendere più dalla parte di nostro fratello, poliziotto al soldo del regime dello scià e successivamente catturato insieme a noi dagli islamisti, oppure se dalla parte del nostro cugino marxista, rivoluzionario violento. Un classico contrasto tra legami familiari e politici. Nel primo caso salveremo il rapporto con nostro fratello solo per poi vederlo uccidere di fronte aI nostri occhi prima di fare la stessa fine; nel secondo, invece, sarà direttamente lui a punirci per il tradimento subito. Due possibilità, due facce dello stesso prisma che ne rilevano la forma, ovvero quello di una rivoluzione nata come crogiolo di mille giuste speranze e morta sotto lo schiaffo di un regime fratricida.