Giocare filosoficamente

Un'introduzione ai videogiochi filosofici.

Se giocare filosoficamente vuol dire essere invitati a pensare filosoficamente durante la partita, quando è che un gioco può dirsi filosofico? Il gioco filosofico è anzitutto una narrazione (‘a work of fiction’ nel testo originale) a tema filosofico. La narrativa ha spesso avuto una speciale rilevanza per la filosofia, ad esempio per corredare teorie e punti di vista con esempi o contro-esempi. Si parla infatti spesso di narrazioni filosofiche al cinema, o su carta stampata, per indicare racconti che trattano idee o questioni filosofiche, e che spesso funzionano come dei dispositivi filosofici a tutti gli effetti. Basta pensare al caso degli esperimenti mentali, per trovare un esempio della narrativa al servizio della filosofia. Ci sono poi casi come il romanzo I reietti dell’altro pianeta (The Dispossessed: An Ambiguos Utopia) di Ursula K. Le Guin (1974) o il film animato Waking Life di Richard Linklater (2001), che non solo trattano di temi ‘filosofici’, ma descrivono scenari paradossali atti ad invitare ipotesi e intuizioni, e a stimolare il pensiero critico (Gualeni, 2015; Gualeni & Vella, 2020).

A differenza però del romanzo, del film o dell’esperimento mentale, giochi e videogiochi sono narrazioni interattive che offrono al pubblico possibilità uniche che verranno discusse nel corso di questo articolo.

Dall'articolo originale
Philosophical Games
Pubblicato da
Encyclopedia of Ludic Terms
Traduzione e adattamento di
Stefano Caselli
Partiamo dalla premessa che i mondi creati da giochi e videogiochi abbiano (almeno in parte) una componente narrativa. Per brevità escludiamo allora casi problematici come sudoku, dama, o videogiochi come Tetris (Pajitnov, 1984), e ci concentriamo invece su esempi che siano senza dubbi ascrivibili al campo della finzione, e cioè che favoriscono e supportano processi di immaginazione nel pubblico. Nel tentativo di focalizzarci sulle implicazioni filosofiche della narrativa interattiva, non discuteremo giochi che semplicemente alludano a prospettive o figure che possano essere ritenuti filosofiche, come Assassins’ Creed Odyssey (Ubisoft, 2018), in cui Socrate appare come personaggio non giocabile. Similmente, non considereremo giochi che abbiano l’obiettivo di comunicare nozionalmente concetti filosofici ai giocatori (ad esempio nel caso di videogiochi didattici o educativi). A interessarci sono invece videogiochi che invitano a ‘giocare filosoficamente’ e quindi a riflettere attivamente su temi filosofici, come ad esempio fa The Stanley Parable (Galactic Cafe, 2011) con il libero arbitrio.

Caratteristiche del gioco filosofico

I giochi filosofici sono ideati per stimolare riflessioni filosofiche e hanno delle caratteristiche peculiari rispetto ad altri media usati con lo stesso scopo. Questi videogiochi

  1. sono anzitutto interattivi, ovvero ci consentono di interagire con oggetti, personaggi ed eventi all’interno del mondo di gioco. Questa possibilità ha un’efficacia filosofica inedita: nel gioco filosofico siamo direttamente responsabili per le nostre azioni e anche per questo siamo maggiormente portati a riflettere su quello che facciamo e che ci succede;
  2. sono rigiocabili e quindi propongono situazioni che possiamo esperire più e più volte anche in modi diversi, con un approccio sperimentale che non è possibile adottare nel mondo reale senza subirne conseguenze (giocare filosoficamente ci consente, in altre parole, di ‘fluidificare’ una realtà diversa dalla nostra, ogni volta ripristinandola a uno stato precedente e osservando come questa si trasformi in base a scelte diverse);
  3. propongono mondi finzionali esteticamente più completi (e completabili) di quelli di film o romanzi: anche per questo funzionano così bene quando ci descrivono scenari ipotetici o mondi possibili.

Su queste basi è possibile identificare due approcci ludici diversi ai temi filosofici. Alcuni giochi mirano a convincerci che alcune idee siano giuste e che alcune scelte siano più buone di altre—li definiremmo, ispirati da Ian Bogost, giochi “retorici” (Bogost, 2007). Sono retorici quei giochi che, ad esempio, mettono in luce aspetti negativi o ingiusti di alcune realtà sociopolitiche, proponendo contesti d’azione distopici senza darci la possibilità di migliorarli in positivo. In Every Day the Same Dream (Molleindustria, 2009) e Cart Life (Hofmeier, 2010), giusto per citarne due, non possiamo evitare o mitigare in alcun modo il senso di frustrazione e alienazione che intendono comunicarci. Sono entrambi giochi retorici che hanno una sola conclusione possibile, e che quindi arrivano al punto narrativo prescritto dall’autore in modo incontrovertibile. Anche quando i giochi retorici hanno più finali possibili, questi finali sono solitamente proposti in chiave gerarchica, nel senso che è chiaro quali conclusioni siano da considerare positive e preferibili e quali invece siano meno auspicabili.

Un approccio diverso lo troviamo in quei giochi che invece sono più ambigui, e lasciano al giocatore la libertà di trarre le proprie conclusioni riguardo a quello che succede nel mondo di gioco, e di capire quali azioni e situazioni valgano la pena di essere perseguite. Chiamiamo questo approccio “dialettico”. Un esempio di giochi dialettici lo troviamo in Detroit: Become Human (Quantic Dream, 2018) o nello sperimentale Something Something Soup Something (Gualeni, 2017). Entrambi esprimono chiaramente la volontà di mettere il giocatore in crisi da un punto di vista epistemologico: il primo ha oltre quaranta finali alternativi e solleva domande spinose sul significato dell’identità personale, sull’uso intelligenza artificiale, e sullo status morale (ed anche legale) di esseri artificiali. Il secondo gioco ci mette, invece, nella condizione di non riuscire a definire in modo completo e soddisfacente qualcosa di apparentemente familiare come una zuppa.

Quanto detto ci dà occasione di riflettere su un altro criterio da usare per distinguere i giochi filosofici. Alcuni, come appunto Detroit: Become Human, intrecciano molti temi diversi: li potremmo definire “saggi giocabili”. Altri, come appunto Something Something Soup Something, si concentrano invece su un singolo tema e sono solitamente giochi più brevi e sperimentali, che possono essere considerati “esperimenti mentali giocabili”.

Ora che abbiamo stabilito queste distinzioni, proviamo a proporre una tassonomia tematica dei giochi filosofici.

Something Something Soup Something (Gualeni, 2017)

Breve tassonomia dei giochi filosofici

È difficile pensare a una mappatura tematica esaustiva dei giochi filosofici. Quello che offriamo qui è poco più di un’introduzione che serve per orientarsi in un panorama ampio e frastagliato, e non va preso come una lista omnicomprensiva. Tra gli illustri esclusi dalla breve tassonomia che segue, per esempio, vale la pena menzionare temi come quelli riguardanti il determinismo o l’esistenza di Dio.

Qui sotto sono riassunti alcuni dei temi più comuni nei giochi filosofici, ovvero:

  • Questioni etiche e dilemmi morali;
  • Dissenso politico e critica sociale;
  • Alterità e straniamento;
  • Satira ed autoriflessività.

Questioni etiche e dilemmi morali

I giochi filosofici che trattano temi riguardanti etica e morale sono di solito quelli che ci mettono di fronte a scelte difficili. Ciò fa leva sull’ambiguità delle decisioni che siamo chiamati a prendere, ma dipende anche spesso dal nostro coinvolgimento emotivo nelle situazioni di gioco. A volte i dilemmi che affrontiamo all’interno dei mondi interattivi di questi giochi ricordano o addirittura citano esplicitamente delle prospettive filosofiche. In generale, possiamo dire che fare scelte eticamente complesse e affrontare poi le loro conseguenze è un’esperienza potenzialmente educativa e a volte addirittura trasformativa per il giocatore. Giochi filosofici sufficientemente appassionanti e verosimili possono, cioè, aiutarci ad affinare la nostra sensibilità e ad orientare la nostra bussola morale.

Serie come Mass Effect (BioWare, 2007-oggi) e The Walking Dead (Telltale Games, 2012), o titoli come This War of Mine (11 bit studios, 2014), sono esempi lampanti in questo senso. Tutti i giochi di cui sopra offrono una sequenza di scelte difficili e spesso irrevocabili, che in ogni momento minacciano di portare alla morte dei protagonisti o dei loro amici. In Mass Effect, per esempio, la specie aliena dei Krogan, espansionista e aggressiva, rappresenta una minaccia per l’intera galassia. In risposta alla loro rapida espansione, i Salarian (un’altra specie aliena) creano la Genofagia, un dispositivo biologico che riduce significativamente la possibilità dei feti Krogan di sopravvivere alla nascita. In Mass Effect 3 (BioWare, 2012) ci viene data la possibilità di curare la Genofagia e di porre fine a quello che a tutti gli effetti è il genocidio, o, in alternativa, di diventare complici dello sterminio e di sabotarne la cura. Per aggiungere ulteriore complessità e profondità etica, inoltre, sabotare la cura per la Genofagia richiede di uccidere a sangue freddo lo scienziato Mordin Solus, un Salarian che è un amico e collaboratore del protagonista del gioco.

Mass Effect 3 (BioWare, 2012)

Dissenso politico e critica sociale

I giochi incentrati sulla critica sociale o sul dissenso politico sono spesso retorici, esplicitamente ideati e costruiti per comunicare quanto una certa situazione sociale o un certo sistema politico sia ingiusto o insostenibile. Altri, in numero minore, hanno un approccio più utopistico e rivelano, durante la partita, che il sistema in cui viviamo è comunque e sempre flessibile e passibile di cambiamento, e che alternative più giuste e meno oppressive sono sempre possibili. Come altre narrazioni filosofiche con obiettivi simili (si pensi alla fantascienza distopica), i giochi filosofici di questo tipo ci aiutano a capire meglio alcune dinamiche sociali ed economiche, e stimolano la nostra immaginazione politica. Giochi come Train di Brenda Romero (2009), ispirato all’Olocausto, il distopico Papers, Please (Pope, 2013) o Nova Alea di Molleindustria (2016) sono esempi piuttosto famosi di questa categoria.

Giochi di questo genere non si limitano solo a denunciare i problemi o le possibilità di sistemi societari, ma possono anche concentrarsi sull’oppressione esercitata da sistemi politici ai danni degli individui. In questi casi spesso si parla di giochi che trattano la marginalizzazione economica, la discriminazione etnica o l’identità di genere, come nel caso di Perfect Woman (Schönfelder, 2016) o nel già citato Cart Life.

Alterità e straniamento

Un altro uso filosofico dei giochi emerge dalla loro possibilità di proporci esperienze che trascendono l’ordinario e vanno oltre la nostra esperienza quotidiana del mondo reale. Miegakure, per esempio, è un puzzle-platform sperimentale di prossima uscita creato da Marc Ten Bosch in si cui risolvono puzzle in quattro dimensioni. Il gameplay è simile a quello di un classico gioco in tre dimensioni, ma premendo un tasto possiamo scambiare una delle tre con un’ulteriore, quarta dimensione. Il game designer Jonathan Blow, commentando in un’intervista Miegakure, ha detto che “è un valido contributo all’esperienza umana, vero? […] Marc sta creando un’esperienza che semplicemente non sarebbe possibile altrimenti” (Clark, 2012).

Se Miegakure è un caso evidente di gioco che ci sfida a superare le nostre esperienze reali, a ben vedere tutti i videogiochi ci rendono accessibili punti di vista, percezioni e possibilità che non ci appartengono o che sono addirittura incompatibili con quelli che riscontriamo nel mondo reale. Inutile dire che questo tipo di esperienze ha un importante uso filosofico ed implicazioni interessantissime. Il videogioco Haerfest (Technically Finished, 2010), per esempio, è stato pensato per rispondere alla domanda ‘come ci si sente ad essere un pipistrello?’ posta nel famoso articolo di Thomas Nagel (1974). Giocando a Haerfest, il giocatore vola sbattendo le ali, si orienta grazie ad un campo visivo estremamente limitato, mangia falene, e naviga nel mondo di gioco grazie ad un ecosonar. Per quanto questa esperienza sia effettivamente irriconducibile a quella di un vero pipistrello, di fatto Haerfest ci rende accessibile una prospettiva che prima semplicemente non avremmo potuto avere. Come Miegakure, il gioco ci invita a pensare al gioco come a un nuovo dominio esperienziale ed epistemologico. Simili sono le aspirazioni di Portal (Valve, 2007) o di A Slower Speed of Light (MIT Lab, 2012). Il primo ci fa divertire con la possibilità di rendere discontinuo il concetto di spazio, il secondo invece ci permette di percepire il mondo come se ci muovessimo a una velocità prossima a quella della luce.

A Slower Speed of Light (MIT Lab, 2012)

Satira e autoriflessività

Spesso i giochi filosofici hanno il gioco stesso come tema portante. Questi giochi favoriscono prospettive metariflessive (o autoriflessive), nel senso che usano il gameplay e la loro estetica per criticare o ironizzare sulle modalità stesse in cui vengono creati, giocati, venduti, interpretati (Gualeni, 2016). Spesso, nel farlo, queste esperienze si basano sulla sovversione di canoni rappresentazionali o interattivi, che diventa una strategia per incoraggiarci a mettere in discussione il nostro rapporto con i giochi stessi ed il nostro approccio canonico al giocare. I giochi meta-riflessivi, attraverso questo tipo di operazioni destabilizzanti, rivelano in tutta chiarezza la loro stessa artificialità. Nel videogioco in particolare questo può avvenire tramite glitch o altre ‘rotture’ intenzionali della quarta parete che separa il pubblico dal mondo narrativo.

Sovvertendo i canoni ludici, spesso questi videogiochi offrono ben poco di piacevole o gratificante: a volte sono fastidiosi, altre volte sono impossibili da completare. Altrettanto spesso, i racconti che propongono sono meta-narrazioni, nel senso che i personaggi, le situazioni e le indicazioni che viviamo durante la partita sono atti a ricordarci che abbiamo a che fare con un artefatto, e non con un effettivo mondo esperienziale. Sono esempi di questa categoria Doors (the game) (Gualeni & Van de Mosselaer, 2021), Necessary Evil (Gualeni et al., 2013), The Stanley Parable (Galactic Cafe, 2011) e The Beginner’s Guide (Everything Unlimited Ltd., 2015).

È importante notare che in questi giochi la meta-riflessione non deve essere fine a se stessa, al contrario, deve essere presente un intento critico evidente (o una prospettiva evidentemente satirica) sui meccanismi che sottendono all’ideazione, produzione e ricezione dei giochi. Necessary Evil, per esempio, svela come ogni mondo di gioco sia ideato per ruotare attorno al giocatore; The Stanley Parable rompe invece di continuo la quarta parete per riflettere sul senso della nostra azione virtuale, ed infine The Beginner’s Guide è un saggio giocabile che affronta temi autoriflessivi come le difficoltà intrinseche nello sviluppo videoludico e il ruolo dell’autore nelle opere di narrativa interattiva.

Ludografia