Kratos è un perfetto padre moderno

God of War e la paternità nei videogiochi.

Giocare ad un videogioco è un’attività gravida di un compito storico, oserei direi quasi fondamentale: cercare di instaurare un rapporto intimo, di complicità, con una macchina computazionale. L’intimità stessa è in fin dei conti una questione ludica: non si è vicini a un’altra persona se non si mette qualcosa in gioco insieme, se non si rischia, consegnando all’altro i mezzi e le istruzioni per giocare con le nostre fantasie.

Giocare a God of War (Santa Monica Studio, 2018) è stato pormi continuamente una domanda: come si fa a essere padri dopo aver ucciso Dio? La risposta è molto semplice, ed è a partire da questa che ho iniziato a sentire una calda sensazione di prossimità con le vicende dell’ex dio della guerra. Come si fa? Male.

Kratos era il più forte generale spartano che, per difendere la sua città, invocò l’aiuto di Ares, diventando così suo fedele servitore. Ares, come tendono immancabilmente a fare gli dei, lo tradì facendogli uccidere tutta la sua famiglia con l’inganno.

Kratos divenne così “il fantasma di Sparta”, un guerriero dannato e nomade in cerca di vendetta (verso il dio della guerra). Ucciso Il dio della guerra e preso il suo posto, capì presto che la sua condanna non sarebbe finita e che avrebbe dovuto rivolgere la sua ira verso il padre stesso degli dei, Zeus. Assaltato l’olimpo e compiuta la sua missione non gli rimase che compiere definitivamente il suo destino e uccidersi. In realtà, scopriamo, che sopravvisse e si rifece una vita come semplice umano in terra scandinava, mettendo su famiglia al riparo da occhi divini. Almeno così credeva.

La storia di Kratos nasce con l’indissolubile legame tra tragedia ed eroismo. Un “eroe” è un individuo che trascende la sua natura particolare, contingente, in favore di una natura ideale. Questo lo rende capace di diventare un riferimento universale o, almeno, il riferimento per una comunità intera.

Il conflitto tra “bene” e “male” nel quale spesso li vediamo impegnati, non è che un riflesso del vero conflitto sottostante, quello tra il loro carattere divino/ideale e la condizione concreta/particolare nella quale sono costretti a continuare a muoversi.

La paternità ha molto a che vedere con l’eroismo, nel senso che si tratta di un momento critico in cui sorge, volente o nolente, una richiesta pressante di “modelli”, di riferimenti che ci aiutino a “sconfiggere” l’imprevedibilità, il rischio della contingenza, in cui diventa più forte la pressione degli “ideali” e il confronto con essi. Siamo chiamati a dare regole, indicazioni, consigli, in base a cosa lo faremo?

God of War (Santa Monica Studio, 2018)

Se la maternità vive il peso di un legame inevitabile, indissolubile, la difficoltà di gestire qualcosa che cresce letteralmente dentro di noi e ci ristruttura dando al tempo stesso l’impressione di ridurre i nostri spazi di manovra; la paternità invece vive il problema opposto. Oggi ai padri si chiede di essere coinvolti in tutte le fasi della gestazione, della nascita e dei primi mesi di vita. Non so se si tratta di un primato storico, ma sicuramente è un elemento eccezionale rispetto alla nostra storia culturale, non solo recente. E tutti noi sappiamo bene da quale disagio voleva proteggerci il caro buon vecchio patriarcato: quando prendi per la prima volta in braccio tuo figlio, è tutto molto bello, molto intenso, tutti si congratulano, ti fanno gli auguri, e tu guardi quel tenerissimo verme sporco di qualunque cosa e invece di sentirti finalmente “padre”, il vicario della legge in terra, la mano di Dio e dell’ordine universale, ti senti, fondamentalmente, un estraneo.

È evidente che madre e figlio già abbiano un rapporto, una frequentazione. Già si cercano, forse non si amano, forse si odiano, boh, che ne sai tu? Non è quello il punto, comunque. Il punto è che è evidente che siano già connessi. Tu invece sei lì un po’ spaesato, anonimo come l’arredamento dell’ospedale. Ti racconti che non è vero ma è chiarissimo che, dal punto di vista del bebè sei poco più che un passante, potresti essere sostituito da chiunque.

Si tratta di una sensazione che si può protrarre per un tempo variabile a seconda dei casi, e che però lascia sempre una traccia che è anche un insegnamento prezioso di cui dobbiamo essere grati. Mesi a sentirti ripetere di quanto sia bello e importante il fatto di essere padre e, nel momento cardine, scopri che in realtà padre non lo sei, devi ancora diventarlo.

Anche i videogiochi sono caratterizzati da una falsa partenza. “Press start to play” è un inganno, un espediente retorico. Il giocare non procede in automatico con l’avvio del software, il gioco inizia quando inizi a sentire una consonanza con gli output prodotti dal programma. Deve aprirsi una dimensione intermedia tra uomo e macchina. Non credo esista una ricetta su cosa faccia scattare questo meccanismo e non credo nemmeno debba essere un processo molto complicato. Con God of War, per me, esso è scattato fin da subito, con una delle prime immagini.

Sei un uomo dalla forza miracolosa, probabilmente imbattibile, in lutto e spaesato. Tua moglie è morta e devi farti carico di un figlio che hai tenuto a debita distanza fino a ora. Dopo aver attraversato più volte gli inferi, aver assaltato l’Olimpo, aver viaggiato nel tempo ed essere emigrato in terre norrene, ti trovi per la prima volta realmente in terra incognita.

In più considera che Atreus, tuo figlio per l’appunto, non è un infante ancora tutto da plasmare. È un ragazzo pre-adolescente cresciuto benissimo, grazie alle cure di una madre meravigliosa. Curioso, sensibile, intelligente, colto, la madre gli ha potuto dare tutte quelle qualità che tu non hai, grazie alla tua splendida assenza. In più, con un gesto realmente eroico, con le sue ultime volontà ha fatto in modo che tu spezzassi il cerchio magico che proteggeva il vostro nido (e che lei aveva eretto) e vi ha costretto a incamminarvi insieme: vi ha messo su un sentiero di crescita, irto di pericoli e sfide, sapendo che avrete bisogno l’uno dell’altro. Premio genitore dell’anno vinto a mani basse, la pressione è schiacciante.

La telecamera del gioco non è quella dei primi tre capitoli, dove le inquadrature mobili avevano dato vita ad alcune tra le scene più belle del panorama videoludico fino a quel momento. È ravvicinata, non si permette più voli pindarici e grandangoli epici, rimane incollata alle spalle del personaggio. Questo non occupa il centro della scena ma è un po’ defilato. Scelta di conformità alla moda del design videoludico dell’epoca ma che tradisce un elemento simbolico potente, voluto o meno non è importante. Sei sempre un essere dotato di tracotante potenza, ma non occupi più il centro della scena.

God of War (Santa Monica Studio, 2018)

Spaesato e decentrato, Kratos è un perfetto padre moderno. Tutta la prima parte del gioco è molto bella perché viaggia sul filo della dissonanza tra gameplay e narrazione, elemento che quando è efficace trovo molto più incisivo della sua niosa opposta controparte. Le dita si muovono sul pad veloci e gioiose mentre spacchi crani con relativo agio e massimo godimento. Tutta la bellezza della danza mortale assassina dei primi capitoli è ancora presente, trasmessa dai polpastrelli direttamente all’amigdala. Quando ti fermi, invece, e il tuo personaggio prova a fare il padre, ed è tutto un crollo ormonale, una sequenza imbarazzante di gesti contratti e parole incerte.

La consonanza tra te e il gioco inizia a produrre i suoi effetti. Il punto centrale è che Kratos non può dire la verità a suo figlio sulla sua natura divina e sul suo passato, perché la verità è che lui, seppur pentito, ha ancora il marchio del mostro sanguinario. Anche tu, nel tuo piccolo, non puoi dire la verità a tuo figlio per una ragione molto più banale: non hai idea di quale sia. Affrontare la paternità a cuore aperto è un ottimo consiglio, ma difficile da seguire quando tutto quello che hai è tutto quello che i figli non ti chiedono: dubbi e perplessità.

Forse questo spaesamento è un problema esistenziale universale, che tutti i padri hanno sempre vissuto. Il dramma storico che ti connette al protagonista è il deserto ideale nel quale ti ritrovi. Tutta la nostra crescita, di figli millennial, del nichilismo edonista degli anni ‘80, è stato un progressivo abbattimento di ancoraggi ideali, di modelli, di schemi predefiniti alla ricerca della propria consacrazione individuale. Se c’è qualcuno che sa che il compito dell’individuo sovrano, libero, è quello di abbattere gli idoli della metafisica e, però, pagarne anche il prezzo, beh quello è sicuramente Kratos .

Ci torno ancora una volta perchè è importante: stiamo parlando di consonanza, di emozioni che risuonano insieme, non di immedesimazione, un termine che è a metà tra il problema psichiatrico e la buzzword e che serve solo a spegnere ogni pensiero critico. Noi non abbiamo ucciso i nostri genitori, non siamo né Edipo né l’Anti-Edipo. Siamo più che altro bimbi sperduti che forse hanno anche avuto un padre meraviglioso come il mio, che è stato ed è ancora un esempio costante, per il quale ringrazierò sempre. Il problema è che l’esperienza dei nostri genitori vive in un passato storico lontano che sembra irraggiungibile, troppo disomogeneo rispetto al paesaggio di incertezze che abitiamo.

Ora ti aspetterai che, finita la pars destruens, inizi quella costruttiva, che tra un drago e un forziere inutile da aprire, il buon Kratos trovi la chiave di volta per costruire questo rapporto e che ce la consegni come prezioso insegnamento. Invece no, per quanto ci provi Kratos non fa altro che inanellare cacchiate pedagogiche una dopo l’altra. Solo le sue antiche virtù, i pugni e l’ultra-violenza, permettono ai due di mantenere la loro rotta e sopravvivere.

Anche il gesto finale che chiude il titolo, quello che dovrebbe rappresentare la definitiva redenzione del personaggio, non è altro che l’ennesimo atto di protervia mascherata, come a dimostrare che nonostante gli sforzi fatti, la natura maledetta del personaggio non l’ha mai veramente abbandonato. Però, contemporaneamente, il rapporto con il pargolo è comunque cresciuto, le crisi ci sono state ma sono state superate, Il bimbo tenero ma gracilino incontrato all’inizio è diventato un giovane guerriero atletico, che non ha perso tutte le sue qualità materne originarie ma che ora è anche in grado di scagliare frecce ad un dio mentre precipita dalla mano di un gigante e che è capace di coordinarsi per combo devastanti con un vecchio padre orgoglioso anche se, immagino, un po’ incredulo.

Il bello dei figli è questo, ti sorprendono sempre. Nonostante il gioco all’uscita sia stato quasi universalmente apprezzato, diversi critici, soprattutto quelli più sofisticati, hanno sempre sottolineato come proprio questo aspetto alla fine sia tra annoverare tra i punti deboli del gioco. In fin dei conti ci sono molti altri autori che hanno saputo far interpretare al giocatore la costruzione di una relazione con strumenti molto più efficaci e memorabili.

God of War (Santa Monica Studio, 2018)

Qui invece emergerebbe la natura programmata e pigra del videogioco, l’automatismo di un’intelligenza artificiale che si confà ai desideri dell’utente senza chiedere troppo sforzo in cambio. Trovo questa critica poco centrata perchè fraintende la natura di esercizio che un gioco ha sempre. Il punto non è tanto la storia e alcuni passaggi narrativi oggettivamente deboli, il punto è che questa progressione un po’ automatica, teleguidata, in realtà rende più efficace l’esperienza a cui abbiamo partecipato per circa una ventina di ore.

Kratos è un uomo potentissimo che si scopre fragile nel diventare padre ma che non per questo arretra o sceglie di proteggersi, anche quando il problema diventa il suo stesso figlio (ah, l’adolescenza!) . Continuerà a commettere errori ma continuerà a provarci, e voi con lui, fino a che tutto andrà per il verso giusto. Può sembrare un messaggio di una banalità sconcertante, quasi deleterio, ma per me è stato balsamico. Forse per farne emergere il significato ho bisogno di qualche altro riferimento culturale, abbiate pazienza.

La daddy issue, il complesso paterno, è forse uno dei temi che più caratterizzano la produzione culturale almeno degli ultimi 20 anni. E lo è ancora di più per il videogioco, un medium che nello stesso periodo ha provato ad accelerare il suo percorso di crescita, cercando di emanciparsi dalla nomea di passatempo infantile. In questo contesto due titoli sono stati e sono ancora più che un’ispirazione costante. Sono diventati quasi uno stampino, purtroppo, per molte storie che volevano affrontare eroismo e paternità in maniera alternativa.

Il primo è Lone Wolf and Cub, un manga per adulti (gekiga) degli anni ‘70. Un’opera immensa, dalle mille sfaccettature, un compendio incredibile della cultura giapponese impossibile da riassumere o contenere in una descrizione. Parla di un samurai, Ogami Itto, decaduto, tradito dai suoi nemici, che invece di porre fine dignitosamente alla sua vita come vorrebbe l’etichetta, intraprende un percorso di assassinio e vendetta, portando con se il suo unico figlio rimasto. È una storia all’apparenza ben poco edificante, dove vedremo il protagonista non esitare nell’usare un infante come diversivo o scudo per uccidere i suoi nemici, e che infatti è stata ripresa sì spesso, ma il più delle volte banalizzata nel tema “disneyano” del bambino che con la sua innocente bontà tempera il carattere violento del padre (sì, Mandalorian, sto parlando con te). Niente di più fraintendente il cuore dell’opera. In realtà, nella cornice sempre presente di quella religione amorale che è il buddhismo, soprattutto nella sua variante giapponese, padre e figlio possono percorrere la via del meifumado: la via della dannazione in terra, sospesi tra la vita e la morte. Il rapporto tra padre e figlio non ha bisogno dell’egida degli dei, nemmeno della guida del bene; il rapporto tra padre e figlio basta a se stesso, è un destino inseparabile .

Il secondo è The road, il romanzo di Corman McCarthy del 2006. Anche qui abbiamo un padre e un figlio che attraversano l’inferno. Un mondo devastato da un’apocalisse indefinita, dove tutto è cenere e morte, ma dove il male più terribile non è rappresentato dalla distruzione apparentemente senza fine, ma dall’umanità stessa rimasta in vita. Viene quasi da dire, rimasta in vita purtroppo. Gli uomini, senza più una legge e legati solo al loro istinto di sopravvivenza, sono diventati mostri di una crudeltà intollerabile, impegnati solo a perpetuare la propria riproduzione divorando se stessi (The Last of Us? Esatto). In questo contesto di oscurità totale, senza una meta in cui realmente credere, cosa rimane a un padre, cosa gli da la forza di continuare a spingere il suo unico figlio in avanti, sulla strada e lontano da essa, in un paesaggio che non offre più orizzonti? Solo la fede nel figlio. Il tema è espresso in maniera talmente potente da andare al di là della semplice metafora cristologica. Il padre non è l’ultimo custode della legge, non è quell’entità capace di dare ordine alla vita. Il padre della vita non sa nulla in realtà. L’unica cosa che può fare è difendere a oltranza il figlio e spingerlo in avanti. È in lui invece che risiede ancora la forza di creare un futuro, la forza di distinguere il bene dal male.

Ecco perchè ho trovato rassicurante accompagnare Kratos, personaggio ottuso e senza dio, nella sua epopea incerta alla scoperta della paternità. Nessun modello, nessun ordine, nessuna legge ci farà diventare padre. Lo faranno i nostri figli. Non dobbiamo decidere della loro natura, nemmeno indirizzarla ma sorreggerla, proteggerla e difenderla dal male, continuando a provare e continuando a sbagliare. Perchè noi non conosciamo la vita, sono loro a insegnarcela.

E allora, anche se il trono degli dei è vuoto, abbiamo ancora tanto da benedire. Benedetto sia lo spaesamento, benedetto sia il decentramento e benedetti siano i riferimenti precari e sempre mutevoli, perché tutto questo ci da una possibilità in più: ci permette di moltiplicare i punti di osservazione su quello spettacolo miracoloso, divino, che sono i figli che crescono, che ci sorprendono, che si allontanano da noi e creano il futuro .