Il naturalismo di Indiana Jones e l’Antico Cerchio

La realtà filmica come modello di esperienza per il giocatore.

In una delle sequenze iniziali di Indiana Jones e l’Antico Cerchio, in seguito all’evento scatenante che spinge inevitabilmente il protagonista a mettersi in viaggio verso l’avventura, ci troviamo a dover far fare la valigia al nostro archeologo. Pochi oggetti, a dire il vero, ma rilevanti per la storia—una fotografia, un disco e, naturalmente, cappello e frusta—che il giocatore è chiamato a individuare, raccogliere e infilare all’interno del bagaglio.

La scelta di fare di questa verosimile necessità pratica una esigenza narrativa e soprattutto un momento di gioco vero e proprio esemplifica bene l’idea di game design che il gioco abbraccia per aumentare il suo livello di immersività, e che qui definiremo naturalistica, intendendo con ciò non un concetto specialistico ma, più in generale, un’estetica che tenta di restituire in maniera quanto più possibile immediata le forme e le modalità di esperienza proprie del mondo naturale1—che, tuttavia, nel caso di Indiana Jones, risulta essere la finzione cinematografica.

In questo articolo si cercherà di vedere quali siano all’interno del gioco gli elementi che favoriscono questo tipo di immersività e in che modo essi consentano di parlare di una scelta di game design naturalistica. Lo si farà analizzando tre aspetti strettamente intrecciati tra loro all’interno del gioco: la sua ispirazione cinematografica2, la sua interfaccia e il gameplay.

Un gioco (doppiamente) cinematografico

Il primo modo in cui il gioco cerca di favorire l’immersività è con il ricorso a stilemi propri del medium cinematografico, che si possono rintracciare, oltre che nella direzione artistica3, anche e soprattutto negli effetti grafici applicati al gameplay, nel menu e nell’interfaccia utente (UI) e anche nei filtri che possono essere attivati nelle impostazioni, per agire come fossero degli effetti di post-produzione. Proviamo a dare qualche esempio.

Per quanto riguarda gli effetti grafici, ampio uso è ad esempio fatto del cosiddetto head bob, tecnica che consiste, nei giochi in prima persona, nel far simulare alla telecamera il movimento della testa quando si cambia la visuale, con il risultato (quando non produce la nausea) di favorire l’immedesimazione nell’avatar.

Passando invece all’interfaccia utente, il menu è in sovrimpressione e la sua attivazione/disattivazione comporta un oscuramento della scena, come se il gioco rispondesse all’esigenza di pausa dello “spettatore”; in maniera ancor più rilevante ed evocativa, i vari livelli del gioco coincidono con altrettanti viaggi in determinate location, e possono essere rivisitati (cioè rigiocati) come se fossero vere e proprie scene di un film. Infine, tra i vari filtri attivabili nelle impostazioni c’è anche la possibilità di optare per una cornice cinematografica in 16:9 lungo tutto il corso dell’avventura.

Indiana Jones e l’Antico Cerchio (Bethesda, 2024)

Nessuno di questi casi presenta elementi di novità, perché questo approccio è spesso tipico dei moderni giochi di avventura, dove la ricerca dell’effetto immersivo e della spettacolarità si serve di questo tipo di soluzioni: si pensi a Uncharted o agli ultimi Tomb Raider.

Tuttavia, nel caso di Indiana Jones, l’uso di tali tecniche acquisisce una rilevanza particolare. A differenza dei giochi citati, infatti, Indiana Jones e l’Antico Cerchio ha un referente reale da cui trae ispirazione—i film: non si tratta di realizzare un gioco come se fosse un film (generico), ma come se fosse quei film4. L’immersività che il gioco vuole portare al giocatore è, dunque, quella dell’esperienza cinematografica, di cui il titolo tenta una forma di mimesi: l’obbiettivo è cioè quello di assomigliargli.

Oltre che rendere il gioco una consapevole estensione trans-mediatica dell’universo narrativo del brand (il gioco è stato pubblicato da Bethesda in collaborazione con Lucasfilm Games), questa duplice natura cinematografica (del gioco prodotto come un film e del gioco che imita dei film) ha, come vedremo, anche un’influenza diretta sul gameplay.

Il mondo di gioco: scheumorfismo e interfaccia diegetica

Prima di passare ad analizzare il modo in cui il giocatore può interagire con il mondo di gioco è però necessario soffermarsi su un altro aspetto che a ciò è intimamente connesso, e cioè la sua interfaccia—ovvero il modo in cui sono rappresentate le informazioni nel mondo di gioco.

Si prenda ad esempio la mappa—anzi, le mappe, poiché ne sono disponibili varie: una volta sbloccata la mappa di un luogo, questa diventa un oggetto fisico che Indiana può consultare: alla pressione del tasto corrispondente, invece di essere riportati a un menu che mostra la mappa, vediamo le mani del protagonista estrarla e consultarla in-game. Sulla mappa sono mostrati i punti di interesse e gli obbiettivi che, una volta richiusa, scompaiono dallo schermo.

Possiamo fare qui due considerazioni su questa scelta: da un lato, la rappresentazione della mappa come oggetto concreto in luogo della sua funzione digitale di interfaccia (ad esempio una bussola o una mini-mappa in sovrimpressione) trae ispirazione da una precisa idea di design scheumorfico: la rappresentazione digitale dell’oggetto richiama la sua controparte fisica5. Dall’altro, e in maniera connessa, questa operazione va nella direzione di rendere quanto più possibile, ai fini dell’immersività e del mantenimento della coerenza del mondo di finzione, l’interfaccia diegetica, cioè interna e percepibile dal personaggio (al contrario di quanto avviene con gli indicatori in sovrimpressione che, essendo percepibile unicamente dal giocatore, sono qualificati come non diegetici)6—e dunque anche esteticamente in linea con l’universo analogico in cui si muove.

Indiana Jones e l’Antico Cerchio (Bethesda, 2024)

Anche per il diario di viaggio si segue la stessa linea: si tratta di un vero taccuino che raccoglie le fotografie man mano scattate, gli schizzi e le indicazioni necessarie per le missioni, e viene consultato dal personaggio e non soltanto dal giocatore.

Poiché tuttavia considerazioni analoghe possono essere fatte anche per la maniera in cui Indy apprende le abilità—attraverso la raccolta e la lettura di veri e propri libri sparsi per il mondo di gioco, ordinabili in una sorta di catalogo—e finanche per la funzionalità del viaggio rapido—reso possibile unicamente tramite interazione con cartelli ben contestualizzati nel mondo di gioco—sembra legittimo poter riconoscere la volontà del game design di affidare allo scheumorfismo e a un’interfaccia diegetica l’idea di ricalcare una forma di esperienza quanto più possibile naturale e immediata: libera cioè da richiami grafici (mini-mappa, segnalini) e informazioni aggiuntive che stonerebbero con la coerenza narrativa e con l’artificio del mondo di finzione rappresentato.

Come ulteriore esempio possiamo spostarci sul nostro personaggio, poiché l’interfaccia diegetica non riguarda soltanto le informazioni proveniente dagli oggetti esterni: anche l’approccio dell’avatar concorre a crearla. Volendo evitare al massimo informazioni contestuali che romperebbero la coerenza narrativa del gioco, sappiamo che possiamo interagire con qualcosa perché le mani del buon Indy si protenderanno verso di esso, e utilizzeremo le sue indicazioni vocali (non sempre utilissime, a dire il vero) come guida per la risoluzione di enigmi.

Il gameplay tra imitazione e simulazione

E proprio la maniera di interagire con il mondo circostante ci porta a parlare del gameplay, dove le scelte formali sopra descritte trovano il loro senso e completamento in una concreta pratica di gioco, che cerca di mettere il giocatore al centro di un’esperienza immersiva la cui ispirazione è, come si è visto, cinematografica.

Uno degli aspetti più riusciti e interessanti del gameplay riguarda il modo in cui il personaggio entra in contatto con il mondo fisico circostante all’interno dell’avventura. Allo scopo di favorire il senso di immersione, questa interazione è realizzata in maniera tale da essere sempre naturale, fluida e realistica: come se il gioco stesse allo stesso tempo imitando l’incedere di un’avventura cinematografica, ma simulando l’esperienza reale. Si possono fare due esempi per chiarire questo concetto: uno per le fasi di combattimento e l’altro per quelle esplorative.

Nel primo caso, l’imitazione cinematografica è evidente nella facoltà di Indy di avvalersi di vari “oggetti di scena” in maniera contundente, trasformandoli in armi improprie che, dopo essersi fracassate sulla testa dei malcapitati, si romperanno inevitabilmente—provocando nel nostro archeologo una complice e ironica scrollata di spalle. Ma non solo: è anche possibile, per il tramite della fedele frusta, disarmare i nemici e utilizzare la loro arma, configurando situazioni rocambolesche che pescano nell’immaginario filmico—come se non bastasse, il tutto completato da un evocativo bruitage a enfatizzare le scazzottate.

Indiana Jones e l’Antico Cerchio (Bethesda, 2024)

Questo accento sulla “prensilità” e sulla sua performatività come chiave di gameplay è particolarmente interessante per la sua intuitività ed immediatezza: gli oggetti possono essere maneggiati come lo si farebbe nel mondo reale.

Si può fare un altro esempio della declinazione di questa meccanica: si veda l’utilizzo delle torce, che possono essere raccolte e accese in vari focolari, e utilizzate senza soluzione di continuità per far luce nei classici cunicoli sotterranei. In effetti, l’obbiettivo di fare dell’esplorazione una componente centrale del gioco (in fin dei conti si tratta del gioco dell’archeologo per eccellenza), porta a un’inventiva ludica che emerge nel processo di risignificazione delle azioni apparentemente più comuni e meno importanti in termini di gameplay: le azioni che spesso e volentieri in questa tipologia di giochi si riducono alla pressione di un tasto (apri la porta, prendi un oggetto ecc.), divengono qui degli atti di gioco veri e propri che richiedono un ulteriore input dalla parte del giocatore, in un movimento che mira però a essere fluido e naturale—come fosse un gesto reale.

Per citare ancora qualche esempio: per aprire una qualsiasi porta è necessario inserire la chiave nella toppa e compiere un movimento con le levette per girarla; la macchina fotografica, utile nell’esplorazione e nella risoluzione di enigmi, deve essere prima equipaggiata e poi utilizzata per inquadrare, simulando il funzionamento dello zoom; e, naturalmente, i vari meccanismi attivabili nel contesto degli enigmi con contrappesi e liquidi vari devono essere azionati manualmente con il movimento del joystick.

Questo ci fa tornare al momento citato all’inizio—la preparazione della valigia—che può adesso essere ripreso alla luce della riflessione svolta. Si tratta di un momento che condensa allo stesso tempo una fonte di ispirazione cinematografica (fare la valigia ha più valore narrativo e scenografico che non ludico) e una forma di gameplay più simulativa, con l’intento di accrescere nel giocatore il senso di immersività, aumentando l’impressione di performatività delle sue azioni e dando nuovo rilievo alle dinamiche di interazione.

Come si è visto, tale approccio di game design può essere definito naturalistico nella misura in cui mira a creare nel giocatore l’impressione di agire in un contesto naturale e immediato. E tale contesto, nel caso specifico del gioco, è proprio quello della realtà filmica, presa come modello di esperienza per il giocatore.

Note

  1. Non si tratta quindi di naturalismo inteso come corrente letteraria né di una qualche forma specifica di filosofia, ma di qualcosa di più simile al concetto comune (anche qui, non specialistico) di realismo—termine che tuttavia, in virtù della sua ancora più ricca polisemia e complessità teorico-estetica, si è deciso di scartare. ↩︎
  2. L’intenzione non è però quella di effettuare un’analisi filologica o comparata tra il gioco e i film, ma di rintracciare a livello formale elementi che richiamano il medium cinematografico in generale. ↩︎
  3. Su cui qui si sorvolerà, in quanto la produzione in stile cinematografico non è in alcun modo qualcosa di specifico di questo titolo. ↩︎
  4. È bene comunque precisare che non si tratta di un tie-in, ma di un’avventura originale. La considerazione è fatta soltanto in linea generale per quanto riguarda l’ispirazione. ↩︎
  5. Si parla di scheumorfismo, ad esempio, quando le icone delle app di uno smartphone richiamano nel loro design oggetti realmente esistenti, come il telefono o la sveglia. Per saperne di più si può consultare questo articolo: https://www.ilpost.it/2023/02/11/scheumorfismo/ ↩︎
  6. Per una disamina di questi temi si può consultare l’istruttivo libro di K. Jørgensen, Gameworld Interfaces, The MIT Press, 2013 ↩︎