Sono io.
Volevo dirti che papà è all’ospedale.
È caduto e si è rotto un’anca.
Pare che quando tornerà a casa non potrà fare le scale.
Almeno per un po’.
Dovrà arrangiarsi in salotto.
Può dormire sul divano letto.
Qui, Richard McGuire
Nei videogiochi due ambientazioni ricorrono più spesso di altre, credo per la loro natura circoscritta e delimitata. Una è sicuramente l’isola. Così su due piedi e facendo enormi voli pindarici mi vengono in mente quelle famose e blasonate di Monkey Island, Myst, Animal Crossing, Fortnite (ahimè) fino ad arrivare alle più piccole (ma per me più importanti) di A Short Hike, Saltsea Chronicles, Oxenfree, Paradise Killer e il recentissimo Promise Mascot Agency (fatevi un giro a Kaso-Machi, vi prego). La lista potrebbe naturalmente continuare quasi all’infinito. L’altra ambientazione strausata e a volte abusata, che è quella che interessa a noi oggi, è la casa. Anche qui la lista potrebbe non avere fine. Solo per citarne alcune entrate ormai di diritto nell’immaginario videoludico: Maniac Mansion, Alone in the Dark, Resident Evil, The 7th Guest, What Remains of Edith Finch, Luigi’s Mansion. O le meno famose casette indie di Gone Home, Clem, The almost gone, Botany Manor, Unpacking, Lorelei and the Laser Eyes e la recentissima Mt. Holly dalle stanze cangianti di Blue Prince, in cui ancora non sono entrato, ma spero di farlo presto.
Ho invece da poco varcato la soglia di una casa molto particolare e che da quel che ho capito esiste veramente, per lo meno come fonte di ispirazione. Your House è l’ultima opera del duo barcellonese Patrones & Escondides e a livello temporale si pone come prequel del loro titolo d’esordio Unmemory del 2020, che mi aveva affascinato molto all’epoca, e di cui riprende il gameplay in toto. Gli stessi sviluppatori descrivono Your House come un libro che si può giocare e un gioco che si può leggere. Come in un’arcaica avventura testuale, ma con un twist moderno e contemporaneo, il giocatore si ritrova a dover leggere la storia di Debbie, neo diciottenne da poche ore, studentessa non proprio modello, orfana di madre, che dopo essere stata tradita dal fidanzato, avuto un incidente e battuto la testa, trova una busta con scritto il suo nome nella sua stanza del dormitorio. Per aprire la busta il giocatore non deve fare altro che premere la parola in neretto open dentro al testo stesso, senza nessuna UI a fare da scudo e filtro tra il lettore/giocatore e lo scritto.

Tutta l’interazione nel mondo di gioco, che nella maggior parte del tempo è solo descritto, avviene infatti tramite le parole, a volte anche in maniera creativa tipo toccare i lemmi velocemente, entro un tempo limite o a ritmo. Anche per spostarsi tra le varie stanze basta premere il nome della stanza stessa: bathroom, upstairs, e così via. A volte capita che la parola di cui abbiamo bisogno all’interno della narrazione sia sbiadita e necessiti di un passaggio preliminare per rendersi disponibile. Come pagine di un libro da sfogliare, la storia avanza solo dopo aver risolto il piccolo enigma letterario. Fin qui tutto bene. A complicare le cose, o forse a renderle più interessanti e ludicamente soddisfacenti, arrivano delle illustrazioni (davvero molto belle) che spesso e volentieri altro non sono che escape room. Osservando molto bene gli oggetti in nostro possesso, ascoltando delle registrazioni audio, leggendo le descrizioni e i numeri, ci troviamo a dover elaborare soluzioni e risolvere degli enigmi sempre più complessi e grandi. Il gioco è diviso in 5 capitoli al termine dei quali si avvia una cutscene in stile fumetto noir che aggiunge dettagli alla storia e funziona da collante tra le varie sezioni.
Ultimamente sempre più videogiochi chiedono, se non pretendono, di avere un supporto cartaceo da affiancare all’esperienza digitale. Penso al già citato Lorelei and the Laser Eyes che poteva essere acquistato con un taccuino customizzato (purtroppo esaurito, ora lo si può scaricare e stampare). Oppure mi viene in mente il delizioso puzzle game LOK che prima ancora di diventare “digital” era un libretto fisico. Anche per Your House conviene avere un foglio di carta e una matita a portata di mano. È uno di quei giochi che richiede di prendere appunti e di segnare numeri, parole, simboli, nomi, sequenze.
Purtroppo in un paio di situazioni poco chiare (non dico illogiche ma ci siamo vicini) mi sono trovato a dover usare l’hint in game che mi ha aiutato ad imboccare la strada giusta, pur senza dare la soluzione completa. Anche se ha scelto la forma digitale per esprimersi, Your House è profondamente analogico, tanto da avvicinarsi in modo prepotente alla letteratura ergodica di Casa di foglie, certo in maniera estremamente ridotta e con un livello di scrittura buono ma senza raggiungere vette memorabili né per il personaggio né per la trama, che risultano abbastanza prevedibili e stereotipati.

Ma torniamo a Debbie. Dentro alla busta trova una cartolina con un indirizzo e una chiave con scritto “happy birthday” sull’etichetta. Quando entra dalla porta di quella che diventerà forse la sua casa, si troverà di fronte a ben più di un mistero da risolvere. La protagonista non attraversa solo una soglia fisica, ma anche emotiva. La casa riflette le sue paure più profonde e i desideri che non ha mai avuto il coraggio di esprimere, e ogni stanza racconta silenziosamente le tensioni mai risolte della sua esistenza. Man mano che esplora gli spazi più nascosti e intimi, si rivelano le sfumature di una personalità che, pur mostrando forza, porta con sé anche una certa fragilità. In fondo, una casa non è solo un insieme di muri, ma un intreccio di storie, di vite vissute al suo interno, di cose che ci si è lasciati alle spalle.
Se c’è un’opera che incarna alla perfezione questo assunto è il romanzo illustrato Qui di Richard McGuire. Nel suo capolavoro tutta la narrazione prende il via dalla prospettiva fissa di un angolo di salotto e si muove nel tempo andando avanti e indietro anche di decine, centinaia, migliaia di anni per andare a scrutare chi o cosa ha abitato e abiterà quel preciso luogo. La casa con le sue stanze e i suoi oggetti diventa allegoria del mondo e delle sue tante sfaccettature. Le mura di tutte le case non hanno mai solo una funzione di isolamento e protezione dal mondo esterno, ma sono mura sensibili che ci ascoltano e ci guardano. L’uomo abita la casa proprio perché non si limita a subire l’esistenza e le fatiche del vivere. Abitare assume perciò il senso del prendersi cura—cura di sé, ma anche degli altri. Debbie dopo aver scovato ogni anfratto della casa e i segreti che custodiva, ne esce trasformata e forse per la prima volta in vita sua non subisce più l’esistenza, ma la “abita”.