Una frase, pronunciata da Truman Burbank nel film The Truman Show (1998), incarna perfettamente il tema centrale di American Arcadia, il videogioco sviluppato dalla software house spagnola Out of the Blue: «Buongiorno, e se non ci vediamo, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!». Entrambe le opere esplorano la vita di un individuo che scopre di essere protagonista inconsapevole di un reality show, mettendo in discussione la realtà che lo circonda che si rivela essere fittizia, creata appositamente per intrattenere il pubblico spettatore.
Trevor Hills è un ventottenne che non dimostra gli anni che ha per via della sua capigliatura e dei suoi vestiti dalla foggia antiquata, tant’è che da alcuni viene anche soprannominato “Flanders”, il vicino ultra-religioso di Homer Simpson. Un impiegato comunissimo, scapolo, senza particolari passioni a parte i videogiochi e la musica. Vive da sempre nella città di Arcadia, un microcosmo in cui tutto sembra essere fermo, almeno esteticamente, ai colorati anni Settanta.
La città si presenta come una grande metropoli, è ordinata, pulita e vagamente retrò, con un efficiente sistema di trasporto, grandi aziende e anche diversi turisti che vengono a frotte a visitare la città. Peccato che, sulla cartina geo-politica degli Stati Uniti, Arcadia non esiste. O meglio, è una sorta di parco a tema, un gigantesco set di un reality show trasmesso 24 ore su 24 al mondo esterno, dove ogni cittadino è inconsapevole attore e ogni gesto viene monitorato e calcolato.
La vita di Trevor prosegue tranquilla fin a quando non irrompe un colpo di scena: scopre di essere diventato impopolare tra gli spettatori, come in realtà molti altri. Ogni cittadino in Arcadia viene valutato tramite algoritmi e la sua intera esistenza è basata su metriche di gradimento, interazioni e trend.
La distopia è ben congegnata e costruita sulla base di un presupposto reale: le nostre vite di oggi sono poste sotto la stessa lente d’ingrandimento, i like premiano le nostre foto e i nostri post sui social, così come contano i numeri delle visualizzazioni, dei follow e dei followers. Trevor è un ragazzo molto intelligente e riflessivo ma privo di qualità straordinarie e poco consono a fare “audience”; nessun litigio, nessun flirt o storia d’amore. Proprio per questo motivo egli è destinato all’estinzione dal sistema.
Dopo il prologo apparentemente tranquillo e ripetitivo, con la telecamera che indugia sulla sua sveglia mattutina, come se fosse la citazione di un altro grande film degli anni Novanta, Ricomincio Da Capo, la fuga rocambolesca di Trevor viene messa in scena. Tuttavia, non sarà da solo; ci sarà qualcuno pronto ad aiutarlo ed è un’addetta ai lavori: si chiama Angela ed è una tecnica di scena che lo guiderà, tramite un auricolare, da dietro le quinte.

Trevor e Angela sono i due protagonisti giocabili, e ognuno presenta le sue peculiarità. Seguiremo le vicende di Trevor in terza persona, con grafica 2.5D platform a scorrimento laterale, sulla scia di Inside o del celebre Another World, e nella sua parte sono racchiuse le fasi più d’azione e spettacolari. Evitare i nemici, correre, arrampicarsi su travi o scale.
Angela, invece, è la dipendente che agisce nell’ombra. La visuale cambia e diventa in prima persona, la grafica è in 3D e gli ambienti sono realistici e corporativi; le fasi che la coinvolgono sono più riflessive e orientate alla risoluzione di puzzle, all’hackeraggio dei sistemi informatici e alla guida di Trevor da remoto (attraverso il suo computer in ufficio può aiutarlo a superare alcuni ostacoli, accendere luci e sbloccare delle porte automatiche).
A differenza della precedente avventura della software house madrilena, ovvero Call of the Sea che prevedeva una sola protagonista, il dualismo “attoriale” in American Arcadia aumenta la varietà e il pathos. Tuttavia, non si pone solo come uno switch di prospettiva: i due stili di gameplay fungono anche da allegoria perfetta della relazione tra “osservatore” e “osservato”.
Trevor rappresenta l’essere umano gettato in pasto all’audience, protagonista indiscusso delle sue azioni rocambolesche, obiettivo su cui è puntata l’onnipresente telecamera. Angela, invece, incarna il senso di coscienza critica, che sposa ideali diversi e decide di non condividere più le politiche lavorative a cui è soggetta, a differenza del suo capo che è fortemente aziendalista; Angela è la voce fuori dal coro, regista empatica ma discreta che guida il protagonista verso la sua emancipazione.
L’estetica anni Settanta non è solo un’operazione nostalgica, ma una vera e propria trappola visiva: colori caldi, capigliature stravaganti e jingle pubblicitari sono simboli di una cultura considerata in modo superficiale. È tipico ricordare solo gli eventi belli dei decenni passati, ma come spesso accade, gli anni Settanta sono stati molto altro.
Negli Stati Uniti, il decennio fatto di pantaloni a zampa e musica Motown smonta l’ottimismo portato dal dopoguerra americano. Le persone diventano ciniche, il movimento afroamericano si intensifica e radicalizza, emerge il Black Power e il cinema blaxploitation, la disillusione aumenta e sfocia in contesti diversi come il movimento punk e la disco, c’è una sorta di “risveglio queer” che parte dagli scontri di Stonewall fino alla crescente visibilità del movimento LGBTQ+.

Il mondo fittizio di Arcadia mostra solo la cultura estetica di quel decennio: i comodi set televisivi degli show da salotto, come Love Boat, con ambienti rassicuranti, colori caldi e pubblico “finto”. Gli spettatori che guardano il grande reality di Arcadia sono attratti da un’epoca mai esistita veramente e da loro mai vissuta, sono persone che si rifugiano in un’immagine ideale di passato: ordinato, felice e privo di complessità. Una proiezione che è meramente estetica e che rimuove tutte le criticità di quel periodo storico.
Oltre a questo, American Arcadia lancia velate critiche al mondo attuale e ad alcune personalità che sono diventate delle vere e proprie icone riconosciute in tutto il mondo. Il patron della retro-futuristica Arcadia richiama in maniera velata la persona di Walt Disney e nello specifico la grandezza e spettacolarità dei suoi parchi a tema. Anche Elijah Walton, come Walt e il suo Topolino, è simbolicamente accompagnato dalla sua mascotte Comet.
Quello che salta di più all’occhio è la vaga somiglianza tra il mondo di gioco e l’ambizioso progetto di Walt Disney: EPCOT, tutt’ora uno dei quattro parchi a tema del Walt Disney World Resort a Orlando, in Florida. Il nome è un acronimo di “Experimental Prototype Community of Tomorrow” (Prototipo Sperimentale di una Comunità del Futuro), e non era altro che una visione futuristica di Disney per una città innovativa, con tecnologie avanzate e un design urbanistico all’avanguardia.
Per come era stata progettata, EPCOT doveva funzionare come una città reale, abitata, un vero e proprio prototipo urbano che avrebbe dovuto anticipare la cosiddetta “città del futuro”. Dopo la morte di Disney, avvenuta nel 1966, il progetto venne trasformato in un parco a tema tutt’ora visitabile, in cui si possono esplorare due grandi aree dedicate alla scienza, all’innovazione tecnologica, alla cultura internazionale, al cibo e all’architettura. Fu inaugurato nel 1982. Arcadia è sia parco a tema che città funzionale. Ogni giorno ospita turisti e visitatori da tutto il mondo che vogliono immedesimarsi in un mondo parallelo e finto in cui tutto funziona perfettamente: un mondo dei sogni, a portata di tutti e sotto gli occhi di tutti.
American Arcadia è una avventura irriverente, umoristica ma anche riflessiva; un titolo ben riuscito che non dura tante ore ma è completabile in una manciata di giorni. I ragazzi di Out of the Blue sono riusciti a riprendere il testimone lanciato più di venticinque anni fa da The Truman Show e lo hanno arricchito con una formula videoludica che riesce a coniugare riflessione sociale e interattività, rielaborando quella visione e trapiantandola in una cultura attuale dove la spettacolarizzazione non è solo una prigione imposta dall’alto, ma un desiderio voluto.
Quello che il gioco ci lascia dietro non è solo una bella avventura, mascherata sin dall’inizio da documentario, ma è una satira lucida e sorprendente che ci fa rimanere seduti a riflettere. Il mondo di Trevor è una distopia oppure Arcadia è già qui, nella nostra vita di tutti i giorni? Tramite i social, “scrollando” sui nostri smartphone sanciamo chi è la persona più popolare, su quali hashtag orientare una determinata tendenza, quali contenuti vedere su Twitch. Lo facciamo continuamente e senza saperlo, nei tempi morti e in quelli dannatamente vivi, e non riusciamo a smettere.