Essere un buon erede: Into the Restless Ruins

Un gioco sul perdersi nei propri stessi labirinti.

Cosa significa che un gioco è da 10? Di recente se lo è chiesto la redazione di Edge, che ha assegnato questo voto a Clair Obscure 33. La domanda è insidiosa, e la risposta che hanno trovato è tanto semplice quanto elegante: un gioco da 10 è un gioco migliore rispetto a quelli a cui è stato dato un 9. Per chi non crede che l’estrema sintesi della valutazione di un’opera possa consistere in un numero, per chi anzi non ha proprio interesse a giudicare, ma piuttosto vorrebbe analizzare o anche solo scrivere, sviluppare un discorso intorno al videogioco, la questione però rimane irrisolta.

Una domanda simile me la facevo qualche mese fa giocando Paper Trail, che mi è sembrato un rompicapo praticamente perfetto: si basa su una meccanica originale, i puzzle sono progettati bene, nuovi elementi vengono regolarmente introdotti e più volte riutilizzati, non dura troppo né troppo poco, e ha anche una veste grafica molto curata, che spesso è una mancanza nei titoli di questo genere. È questo un gioco da 10, o per uscire dalla logica dei voti, un classico? Un titolo cioè privo di difetti evidenti, per il quale non si possono immaginare margini di miglioramento significativi?

Forse serve qualcosa di più: dovessi segnalare un classico, o diciamo pure un 10 (forse si potrebbe ipotizzare una linea editoriale che prevede solo l’uso del massimo voto), andrei alla ricerca di un gioco che sia il culmine di un percorso, o il capostipite di un altro, o addirittura entrambe le cose. Insomma, la perfezione non è ancora sufficiente; i titoli a cui sto pensando hanno meriti che vanno al di là del loro codice, e cambiano il corso della storia dei videogiochi. Per fare un nome uscito durante il periodo di esistenza di questo sito, cioè dal 2018 in avanti: Slay The Spire per me è un 10.

Raccoglie l’eredità di anni in cui sembrava che i videogiocatori competitivi avrebbero smesso per sempre di spararsi per mettersi invece a giocare a carte (Heartstone, Gwent, Legends of Runeterra, Eternal, Shadowverse, ecc.), e al contempo intercetta la nuova epoca d’oro dei roguelike (FLT, The Binding of Isaac, Darkest Dungeon, Rogue Legacy), e mette insieme le due cose, diventando l’esempio per innumerevoli titoli a venire. Già, perché se con le carte si può dare vita a un roguelike, per quale motivo non si potrebbe fare lo stesso per creare un city-builder (ecco allora Terrascape)? Un hack & slash (Book of Demons)? Un rompicapo (Cultist Simulator)? Una visual novel (Griftlands)? Le possibilità sono improvvisamente infinite.

Into the Restless Ruins (Fonte: press kit)

Ultimo nella dinastia generata da Slay The Spire, arriva Into the Restless Ruins dello studio scozzese Ant Workshop, che mischia le carte—è il caso di dirlo—ancora un po’: ancora deckbuilder e roguelike, ma anche auto-battler, extraction game e rompicapo. Il concept, come spesso accade in titoli che hanno un’idea chiara e funzionano bene, è molto semplice; il game design poi provvede a rendere appagante e ricca di sfaccettature l’esperienza di gioco. La missione dell’eroe è banale: deve affrontare sei dungeon, al cui interno si trova un nemico, e sconfiggerlo.

C’è un ostacolo importante: non esiste un percorso per raggiungere il boss. Il dungeon dovrà essere costruito una carta dopo l’altra, poche stanze alla volta (proprio come la casa infestata di Deck of Haunts): ognuna differente per forma, dimensioni, posizionamento delle porte. Un dungeon così composto, inevitabilmente, sarà a lungo incompleto e fino alla fine un po’ improvvisato: in un curioso caso limite di gameplay emergente, in Into the Restless Ruins chi gioca genererà da sé gran parte delle difficoltà che andrà a incontrare: perché le fasi di gioco si alternano e, dopo averlo costruito, si entrerà nel dungeon e si faranno i conti con le proprie scelte.

É davvero difficile ottenere un dungeon che non abbia vicoli ciechi, o dove le stanze più utili siano ubicate nei punti più convenienti: eppure, per ovviare all’esaurimento della propria torcia (da ricaricare ai falò) e della propria salute (da recuperare nei boschetti), giacché i combattimenti sono sì automatici, ma questo non vuol dire essere invincibili, proprio questo bisognerà fare: posizionare le stanze più strategiche alla giusta distanza l’una dall’altra, e sul percorso più battuto; perché la necessità di raggiungere alcune zone avvolte nella nebbia ci porterà a costruire in più direzioni, e ben presto ad avere un dungeon in cui è complicato orientarsi.

Into the Restless Ruins (Fonte: press kit)

In effetti, più che i riflessi o le capacità strategiche o di pianificazione, Into the Restless Ruins mette alla prova la memoria a breve termine. Senza alcuna mappa a disposizione, ogni incursione nel dungeon richiede innanzitutto di ricordare come lo si è costruito, e di ricordarlo abbastanza bene da attraversarlo anche al contrario, perché bisognerà sempre tornare indietro per uscirne, a meno che non si affronti l’ultima spedizione, quella decisiva, in cui si punta a sconfiggere il boss. Si tratta di un momento al quale puntualmente si arriva, se non si muore troppe volte, e se non si fanno errori gravi nella costruzione del dungeon. A quest’ultima possibilità si lega una delle due principali critiche che ho visto muovere al gioco; ma trovo sia ingiusta.

È vero, posizionando le stanze in modo sbagliato può diventare impossibile completare il dungeon, e necessario ricominciare da capo; e di certo basterebbe avere a disposizione un pulsante “undo”, o un’opzione per rimuovere una stanza, per evitarlo. Non si tratta, però, di cattivo design. Esistono—esistevano soprattutto una volta—i cosiddetti “unwinnable state”, in cui al giocatore veniva lasciata la libertà di mettersi in una posizione per via della quale era impossibile finire il gioco. Le avventure targate Sierra erano famigerate in questo senso, e nel quinto capitolo della saga di King’s Quest ad esempio bastava non raccogliere una corda a un certo punto per scoprire, ore dopo, di non poter più proseguire. Non era solo un errore di design, era una cosa che faceva infuriare.

In Into the Restless Ruins però un “unwinnable state” è riconoscibile immediatamente, ed è solo una condizione di sconfitta, esattamente come accade in un qualsiasi solitario. L’altra critica più diffusa riguarda le carte: quelle fondamentali per completare il gioco si trovano già nel mazzo di partenza. Sarà utile averne dei duplicati, e delle copie potenziate, mentre aggiungere altre carte resta sostanzialmente inutile; e questo ovviamente non è il massimo, per un deckbuilder. Somiglia senz’altro a un difetto, ma occorre tenere presente che questo gioco non è solo (non è un puro) deckbuilder, ma un insieme di tante cose.

Al netto dei suoi difetti, questa resta la forza del titolo sviluppato da Ant Workshop. Un giorno l’eredità di Slay The Spire arriverà a esaurirsi e questo sarà ricordato come uno dei giochi che meno ha provato a replicarne la formula, e più a restituirne lo spirito, l’intento originale: unire più elementi per dare vita a un gameplay unico. Io credo che ogni appassionato, di tanto in tanto, senta fortissima la tentazione di smettere con tutti i videogiochi tranne uno (per me potrebbe essere tranquillamente Football Manager); e poi ci ripensi sempre, di fronte a una qualche opera magari non entusiasmante e sicuramente imperfetta, ma del tutto imprevista, viva, spiazzante, che non aveva proprio visto arrivare; e che forse si intitola Into the Restless Ruins.