Il mondo parlante di Alan Wake II

Il ruolo delle affordance nel game design di Remedy.

Ci sono delle opere videoludiche che hanno lasciato un segno indelebile nel mio viaggio nel mondo dei videogiochi, per diversi motivi. Un gameplay innovativo, una storia profonda, ore di divertimento da sola o con altri giocatori. Alan Wake II, il sequel del celebre primo capitolo creato dalla software house finlandese Remedy, è uscito in digitale sul finire del 2023 dopo diversi anni di attesa dall’acclamato sequel.

Il viaggio dello scrittore tormentato ritorna proprio nella cittadina bucolica statunitense di Bright Falls, lì dove era terminato tutto; stavolta nel suo viaggio non sarà solo, ad accompagnarlo c’è una nuova comprimaria, la profiler dell’FBI Saga Anderson, la quale ha il compito di indagare su uno strano omicidio avvenuto nei boschi vicino Bright Falls e si trova—suo malgrado—coinvolta in eventi sovrannaturali che la collegano ad Alan e al Dark Place, un luogo onirico e distorto che si alimenta delle storie dello scrittore.

La divisione di queste due storie si intersecano e si sovrastano, come se stessimo navigando in una gigantesca e interattiva camera degli specchi. Il primo, il viaggio di Alan, è più onirico, surreale, esplorativo, in cui il level design viene stravolto, mentre quello di Saga, nel mondo reale, è più votato all’investigazione. Il videogiocatore ha massima libertà di scelta: è possibile giocare prima ad una storia e poi ad un’altra, oppure giocarle parallelamente. Io ho scelto di seguire prima un capitolo con Saga e poi uno con Alan e viceversa, così da vedere pian piano gli sviluppi da entrambe le parti.

La parte che mi è piaciuta di più è stata quella di Alan, intrappolato nel Dark Place, senza possibilità di uscita. Non è solo un luogo oscuro, ma una vera e propria entità senziente, che si nutre delle paure e dei pensieri delle persone che vi sono dentro. Le ambientazioni sono mutevoli, le stanze si deformano, le luci cambiano, nulla è stabile.

Alan Wake II (Fonte: screenshot)

Anche a livello visivo, è un trionfo per gli occhi, con un taglio decisamente cinematografico. Uscito da un tipico romanzo noir, il Dark Place di Alan è una piovosa e notturna New York City arricchita da strade bagnate, luci al neon e messaggi criptici. Alan, per uscire da questo loop, continua a scrivere allo scopo di trovare un nuovo finale che lo faccia uscire da quel labirinto onirico.

Non mancano i nemici, le presenze oscure, e un’antagonista come doppelgänger, una figura misteriosa che si fa chiamare Mr. Scratch (“Graffio” nella versione italiana), simbolo del lato negativo della sua mente. Tuttavia, questo labirinto mentale è dispersivo anche per il videogiocatore. Ci troviamo in quel mondo sconnesso e lontano dalla bucolica Bright Falls che, nonostante i suoi misteri, dona quella sensazione di vaga tranquillità che alcuni di noi hanno sperimentato anni prima.

Nel mondo oscuro di Alan ci sentiamo persi, quasi in balia dei pensieri dello scrittore. L’interfaccia utente è ridotta al minimo e con pochi elementi per il videogiocatore. Tutto è simbolismo: gli elementi di gioco sono sublimati dalla mente di Alan Wake e dalla sua narrazione. Proprio in quelle sezioni di gioco, all’interno di ambienti oscuri e in continuo mutamento, ho visto che il mondo di Alan Wake II stava parlando proprio a me, seduta dall’altra parte dello schermo. Come se fossi, unitamente ad Alan e Saga, la terza protagonista del racconto.

C’è stato un momento in cui non sapevo esattamente dove andare, avevo visitato la metropolitana e—una volta in superficie—ero certa di salire da qualche parte ma non sapevo qualche strada prendere. Il mondo cambiava secondo il mio volere e grazie al fascio di luce della torcia, elemento imprescindibile della trama, ma mi sentivo quasi smarrita. Però, mentre osservavo l’ambiente virtuale circostante, una gigantesca scritta a neon torreggiava sopra di me: “STRAIGHT UP”, dritto in alto.

Alan Wake II (Fonte: screenshot)

Era il mondo di gioco che me lo comunicava e io mi sono sentita davvero troppo stupida per non averla vista prima. Allo stesso tempo mi sono sentita quasi risollevata: non sono sola, è il mondo di gioco a guidarmi in questo ginepraio di poligoni. A questo messaggio poi ne sono seguiti tantissimi altri che sono stati utili per procedere e anche per capire l’intricata lore messa sul piatto dal visionario game designer Sam Lake (il vero scrittore della storia).

Tutto questo mi ha portato alla mente il concetto di affordance nei videogiochi. È curioso sapere che uno dei capisaldi del game design arriva proprio dalla psicologia, una materia umanistica. In barba a tutti coloro che vedono la psicologia e il mondo dei videogiochi come due entità distinte, psicologia e videogiochi hanno davvero tanto in comune.

Il termine affordance nasce da James Gibson (1977) nell’ambito della psicologia ecologica, e si può tradurre come un “invito all’uso” di un determinato oggetto da parte di un essere umano. Ogni oggetto o realtà fisica possiede una affordance: una tazza con un manico laterale permette alla persona che la sta utilizzando di dedurne intuitivamente la funzionalità. Potremmo anche prendere una tazza dalla parte opposta del manico, ma con il rischio di scottarci se la bevanda al suo interno è molto calda. Il manico ci agevola.

Nel 1988, i concetti di Gibson vengono ripresi da Donald Norman nel suo saggio The Design of Everyday Things in cui scrive: “Un oggetto con una buona affordance è progettato in modo da suggerire, tramite le sue proprietà fisiche, le azioni appropriate per essere manipolato dall’essere umano”. Nel mondo videoludico, l’affordance si traduce in:

  • capire a colpo d’occhio che cosa si può fare con un oggetto, un ambiente o un personaggio;
  • avere un design chiaro, pulito ed intuitivo che guida il giocatore senza bisogno di tutorial molto lunghi o prolissi.
Alan Wake II (Fonte: screenshot)

Le affordance nel game design possono essere di tipo visivo: il “famoso” muro di mattoni diverso dagli altri, oppure il mucchietto di terra diverso dal resto del terreno perché lì è nascosto un tesoro o un oggetto importante. Può essere di tipo funzionale: un bottone di colore diverso, un nemico con un punto debole visibile. Può essere di tipo comportamentale o narrativo: un NPC che ti guarda e ti parla se ti avvicini, un documento con indizi evidenti.

Negli ultimi tempi è nata una vera e propria polemica da parte alcuni videogiocatori sulle affordance visibili in quanto, per alcuni, spezza l’immersione nel mondo di gioco. Su Reddit e anche su alcune testate dedicate, è nata la polemica sulla “yellow paint”, una scelta di design da parte degli sviluppatori di indicare, con una vernice gialla, quale parete scalare o quale scala utilizzare per spostarsi nel mondo virtuale. Sebbene, da un lato, possa essere un elemento “di disturbo” per qualcuno, evidenziare alcuni oggetti o dettagli ambientali è fondamentale per coloro che hanno un deficit a livello visivo, ed è di grande aiuto durante fasi di gioco particolarmente frenetiche.

Vi ricordate Mirror’s Edge? Il videogioco pubblicato da EA fa un uso magistrale di affordance di tipo visivo attraverso un massiccio uso del colore rosso. Caratterizzato da un design minimale in cui la fanno da padrone il bianco e i colori caldi, il colore rosso evidenzia gli oggetti (tubi, scale, passerelle) che permettono di attraversare gli ambienti. Fu uno dei titoli di punta della settima generazione di console e uno dei primi esempi di interfaccia minimale, in quanto non veniva fatto uso di un HUD invadente o di frecce luminose: il mondo stesso è l’interfaccia, e la stessa cosa, a livello più generale, si può dire di Alan Wake II.

Nel videogioco di Remedy l’affordance non è solo un supporto al gameplay, ma un’estensione vera e propria del protagonista e del tono narrativo: il gioco non ti dice cosa fare, bensì te lo suggerisce. Specialmente nelle sezioni con Alan intrappolato nel Dark Place, compaiono spesso messaggi scritti sui muri, sul pavimento, su oggetti, che sembrano parlare direttamente al giocatore o allo stesso Alan. Questi possono essere riferimenti alla trama, indicazioni su dove andare o frecce che puntano i collezionabili.

Alan Wake II (Fonte: screenshot)

A livello narrativo, si suggerisce che l’autore di tali scritte fosse Alan stesso in un loop precedente oppure che fossero opera della sua versione “malvagia”. Possono simboleggiare delle memorie perdute, echi di sceneggiature già scritte o istruzioni date a sé stesso.

A livello di “spinta” all’azione per il videogiocatore, come già analizzato, possiamo trovare dei riferimenti direzionali. Frasi come “this way”, “the door is behind you”, “look up” spingono il videogiocatore ad esplorare senza ricorrere ad indicatori. Tuttavia, possono essere anche un “orpello” narrativo: “you’ve already been here”, “you wrote this”, sono messaggi che creano tensione e suggeriscono che ogni passo, in realtà, è parte di un ciclo. La scelta che più mi ha stupito è il fatto che queste scritte sono integrate nell’ambiente e fanno parte del mondo fisico, aumentando il coinvolgimento psicologico.

Come nell’esempio fatto all’inizio, la prima cosa che ha catturato la mia attenzione è stata una grande insegna al neon. Queste insegne sono gli elementi visivi più iconici e disturbanti del Dark Place in cui è calato Alan. Le insegne a volte contengono parole chiave come “EXIT”, “DREAM” o “WRITE”, e non hanno solo una funzione decorativa ma si accendono in momenti precisi, spesso legati a puzzle o bivi narrativi, diventando dei veri e propri catalizzatori di attenzione: spiccano nel buio, guidano lo sguardo dei videogiocatori verso passaggi nascosti o non chiaramente individuabili. Il fatto che le insegne cambino, spariscano o si accendano solo dopo alcune azioni fa sentire il mondo vivo e reattivo.

A livello videoludico, le affordance implementate in questo modo così “sottile” sono uno strumento potente perché il videogiocatore apprende leggendo, osservando, seguendo segnali visivi e testuali diegetici, andando a snellire noiose fasi tutorial che molti di noi “skippano” senza neanche volerlo.

Alan Wake II (Fonte: screenshot)

Tuttavia, le affordance nel gioco di Remedy non funzionano solo così e sono presenti, seppur in maniera diversa, nelle parti di gameplay dedicate a Saga Anderson. Come detto prima, Saga è un nuovo personaggio introdotto in questo nuovo capitolo, una profiler dell’FBI, che—senza fare ulteriori spoiler—va ad unire l’universo narrativo di Alan Wake con quello di Control, altro titolo Remedy. La software house con sede a Espoo ha trasformato il lavoro di Saga in una meccanica ludica concreta: la Mind Place, una stanza mentale interattiva che il videogiocatore può navigare come uno spazio fisico per ricostruire indizi e scoprire connessioni tra eventi, luoghi e personaggi.

La Mind Place è uno spazio fuori dalla realtà ma riprende gli elementi presenti nell’albergo che ospita Saga e il suo collega Casey. Ha un tipico stile da baita di montagna, caldo e accogliente. I casi investigativi sono presenti in dei fascicoli e possono essere posizionati lungo una grande bacheca di sughero: il videogiocatore può muovere a proprio piacimento e consultare tutti gli elementi sbloccati dopo un nuovo capitolo, dopo aver trovato particolari oggetti o sentito nuovi testimoni. Il gioco aiuta il videogiocatore nelle connessioni logiche: non ti dice “collega questi due elementi”, ma ti mette nelle condizioni di capirlo attraverso la logica e l’intuito. La mente di Saga è in tutto e per tutto uno strumento investigativo: il videogiocatore viene portato a pensare come lei, in un ambiente costruito con la sua logica. È pura affordance anche in questo caso. L’interfaccia grafica è ridotta al minimo, solo un puntino giallo ci fa notare che sono presenti nuovi indizi o persone da intervistare.

Per concludere, quello che mi è piaciuto di più dell’intera opera nata dalla mente di Sam Lake è che Alan Wake II usa ogni elemento del design come mezzo comunicativo. L’affordance che, come ripeto, è un costrutto psicologico prestato al mondo dei videogiochi, non ha solo una funzione strumentale ma è una chiave di lettura profonda di tutta l’esperienza ludica.

È un nuovo modo di raccontare. Non dico che sia necessario e non prendo le parti di chi sostiene che la “yellow paint” sia da abolire. In giochi come Death Stranding in cui tutto respira UI (i like degli altri videogiocatori, i cartelli che indicano eventuali pericoli o presenze, strade percorribili evidenti) le affordance visive sono necessarie, prorompenti e parte integrante di tutta l’esperienza. In Alan Wake II, un videogioco che va oltre la semplice struttura ludica (implementa magistralmente scene con attori in carne ed ossa, musica e animazione), le affordance possono essere nascoste in un “altro mondo” onirico e credibile, celandosi saggiamente in elementi di metanarrazione interattiva.