Se eravate giovani negli anni Ottanta o—come me—nei Novanta, e bazzicavate la vostra scena punk-hardcore locale, ci sono ottime probabilità che, almeno una volta nella vita, abbiate sfogliato una fanzine. Era la forma più autentica dello spirito DIY di quei tempi: nessuno parla di ciò che faccio? Non esiste una copertura per le cose che mi piacciono? Nessun problema, ci penso da me. La mia redazione saranno gli amici, la mia tipografia avrà la forma di una fotocopiatrice, la grande distribuzione quella di un banchetto ai concerti.
Alcune fanzine si sono limitate a parlare di musica, altre hanno dato spazio anche a fumetti, poesie, articoli su tematiche politiche e sociali; alcune hanno iniziato e cessato l’attività nel giro di pochi mesi, altre sono andate avanti per anni, o si sono trasformate in qualcosa di diverso, magari un’etichetta discografica; tutte sono state espressione del fermento culturale di quel periodo, e in particolare della propria città: All Out Attack (Vicenza), Attack Punkzine (Bologna), Equilibrio Precario (Trento), Hate (Roma), Itself (Pescara), Megawave (Napoli), Plexiglas (Carpi), Snowdonia (Torino), T.V.O.R. (Como), Vaffanskate (Genova), Xerox (Milano), per fare qualche esempio.
Oggi è difficile recuperare più di qualche scansione in rete, e per vederne una copia conviene andare in pellegrinaggio presso quelle poche organizzazioni che si occupano di preservarle e catalogarle, come il Centro Nazionale Studi Fanzine di Forlì.


In ambito videoludico un sorprendente e inaspettato omaggio a quel mondo perduto arriva con Skogdal, gioco sviluppato da due fratelli norvegesi che, dal punto di vista anagrafico, rappresentano proprio i due decenni in questione: Kay Arne Kirkebø, il maggiore, è nato negli anni Ottanta, e dopo essere stato un videogiocatore competitivo di Super Nintendo è diventato un artista; Erlend Kirkebø, il più giovane, è nato negli anni Novanta e ha sempre creato videogiochi, prima nello studio Megapop di Oslo, adesso come sviluppatore indipendente.
«Quando abbiamo iniziato seriamente a esplorare idee per un gioco da creare insieme, abbiamo valutato sia a quali tipi di giochi lo stile di Kay Arne potesse adattarsi, sia quali giochi volevamo creare, sia cosa sarebbe stato realistico realizzare. Siamo entrambi appassionati di questo genere, quindi il deckbuilder era qualcosa che interessava entrambi. Inoltre era un tipo di gioco che poteva avere una vasta e variegata quantità di contenuti ma non richiedeva molto lavoro di animazione (troppo dispendioso in termini di tempo), e ci permetteva di disegnare molti luoghi, personaggi e grafiche delle carte, in un’impostazione a turni più statica. Abbiamo anche visto rapidamente le possibilità di creare un mondo unico, e di strutturare il gioco in modo un po’ diverso rispetto ai tipici deckbuilder, prendendo ispirazione dai giochi d’avventura punta e clicca», hanno raccontato i due al sito norvegese Spillhistorie.no.
Conoscere la genesi di Skogdal ne anticipa e ne spiega al contempo i pregi e i difetti. È un gioco strano, un deckbuilder atipico: esattamente come una fanzine autoprodotta, si struttura molto intorno alle esigenze dei suoi autori e ben poco su ciò che suggerirebbe un’analisi di mercato o un manuale di game design.


È inoltre un gioco intriso di un certo clima tipicamente anni ’80/’90, in cui una paranoia anche vera, un po’ complottista e un po’ distopica, si unisce da una parte a un senso di rassegnazione, a un’arrendevolezza dettata tanto dalla pigrizia quanto da una specie di stanchezza esistenziale, e dall’altra a una voglia di non prenderlo poi troppo sul serio, questo mondo uscito fuori di testa.
Volendo tracciare alcune coordinate tra piccolo e grande schermo: X-Files, Essi vivono di John Carpenter e Society di Brian Yuzna, Doom generation di Gregg Araki e Slacker di Richard Linklater.
La tranquilla cittadina di provincia in cui vivono i vari personaggi che via via si sbloccheranno, e potranno essere utilizzati in ogni run, è un posto dove gran parte degli abitanti sono impazziti: perché ci attaccano non appena ci vedono? E cosa ci fanno i militari e i servizi segreti in quello che sembra essere il luogo d’impatto di un oggetto caduto dal cielo?


Per scoprire cosa stia succedendo occorre innanzitutto difendersi, costruendo un mazzo che rifletterà alla perfezione il tema e l’ambientazione del gioco; perché sono carte: lo zaino, l’elenco telefonico, la pugnalata alle spalle, varie toppe death metal, trash metal, doom metal, heavy metal, la batteria della macchina, il mattone, la lattina vuota, la bottiglia rotta, il cibo per cani, la mazza da baseball, vari funghetti dalle proprietà psicotrope o semplicemente intossicanti, l’headbanging, il dito mozzato, la fionda, il latte andato a male, la carta igienica, e così via. Tra le migliori carte per la difesa: la giacca di pelle. Tra le migliori carte per l’attacco: il crowd surfing.
Sarà utile, inoltre, circondarsi di amici, e avvalersi dell’aiuto di chiunque voglia unirsi alla nostra causa: il body builder, l’escursionista, il wrestler, il metallaro, il prete, il politico locale e tanti altri ci permetteranno di avere dei vantaggi, non tutti ugualmente preziosi; e, naturalmente, i follower più utili saranno anche i più rari.
A quel punto saremo pronti ad affrontare i nemici, in scontri che avranno come colonna sonora i pezzi scritti per il gioco da Anders Odden, chitarrista e fondatore della band death metal norvegese Cadaver. Quando riusciremo a completare per la prima volta una run, scopriremo poi di non aver affatto finito il gioco, ma semplicemente sbloccato delle nuove zone da esplorare.


Questo curioso mix tra un roguelike e un’avventura lineare risulta un po’ spiazzante: non si può dire che non funzioni, ma nemmeno lascia molta voglia di rivedere la stessa formula in futuro. Ne deriva infatti una certa staticità tra una run e l’altra, dovuta alla riproposizione—al netto della facoltà di cambiare strada quando si incontra un bivio, se si è già sbloccato il relativo percorso—degli stessi quadri, con gli stessi nemici, nello stesso ordine.
A parziale compensazione di questa monotonia di fondo, il gioco presenta non solo tantissime carte, ma anche ripetute opportunità per modificare in corsa il proprio mazzo: praticamente ogni quadro offre la possibilità di aggiungere una carta, o di rimuoverne una, o di fonderne due per ricavarne una terza che in qualche modo ne somma gli effetti, o di guadagnare un nuovo follower.
È tale enorme libertà, vista raramente in giochi del genere, a determinare la curva di apprendimento: è fondamentale imparare a distinguere quando resistere alla tentazione e quando invece approfittarne. Di solito nei deckbuilder determinati archetipi, certi modi per costruire un mazzo “rotto”, sono facilmente intuibili e la difficoltà sta più che altro nell’arrivare a ottenerlo, con un buon piano strategico e un pizzico di fortuna; in Skogdal, invece, il difficile inizia già dal capire su quale tipo di build puntare per arrivare fino in fondo. Insomma, l’effetto complessivo è un po’ caotico; però, se non vi piace il caos, cosa ci fate ancora qui? Questo è un postaccio, avete sbagliato locale: probabilmente i concerti che vi interessano li fanno negli stadi.