Se avete voglia di fuggire dal posto in cui vi trovate, non c’è modo migliore che ascoltare buona musica. O giocare un buon videogioco. South of Midnight è un buon videogioco con dell’ottima musica. Ha dei limiti e un finale un po’ così, è vero. Ma ha il blues dentro e non dura tanto. Che volete di più?
Io il blues non me lo ricordo in nessun videogioco, prima di South of Midnight. Certo, qui e lì spunta in qualche colonna sonora—anche The Last of Us ha delle parti di banjo e chitarra che ti mandano dritto al sud. Ma fare un videogioco interamente incentrato sul blues è un’altra cosa. South of Midnight dimostra che si possono infilare la magia e il fantastico in un videogioco andando oltre la solita ambientazione fantasy. Qui abbiamo la palude, le maledizioni cajun, i fantasmi della schiavitù, i mutaforma e tutte le incrostazioni di fango che provengono da un mondo corrotto fino al midollo delle cose. Del resto il corrispettivo di Kooshma esiste in quasi tutte le tradizioni popolari. A volte è un demone, altre un folletto che ti si piazza sul petto mentre dormi e ti toglie il respiro. Dalle mie parti si diverte a intrecciare le criniere dei cavalli e i capelli delle donne. Altre volte ti guida verso un tesoro sepolto tra le campagne, oppure ti regala delle monete. Altre ancora è Pulcinella.

Il blues di South of Midnight è musical, gospel, cabaret, vaudeville, canto funebre per una terra di orfani e vedove che mettono fuori le pinne per continuare a vivere in acqua. Ci sono le baracche, il bayou, le mucche sui tetti e interi villaggi sommersi dal fango. La piccola cittadina di Prospero devastata dalla tempesta: è Shakespeare. Ma è anche Katrina. È l’America di oggi, inchiodata all’America di sempre. I ricchi sempre più ricchi, i miserabili sempre più miserabili. I mostri veri sono altri. Non bisogna odiare i ricchi perché sono ricchi: ma perché sono fortunati. La ricchezza è un fatto concreto, materiale. I soldi li puoi toccare. Quindi li puoi fare, in un modo o nell’altro. La fortuna no. La fortuna è come Roux o Koohsma. È lei che ti tocca. Se ne ha voglia. Se sei nato schiavo, non puoi diventare il capitano di un battello. Puoi diventare un kapò, puoi schiacciare qualcuno sotto i tuoi stivali tra i filari di tabacco o cotone e frustarlo per sentirti finalmente qualcuno. Ma fa schifo uguale.
Schifo quasi quanto l’enorme donna ragno che abita sul Naso della Strega. Temevo un sacco di incontrare Molly lassù, sulla montagna. I ragni non mi fanno più orrore come in passato. Alcuni li accolgo sul palmo della mia mano, per portarli fuori al sicuro in giardino o in aperta campagna. Non li ammazzo più, questo è certo. Gli do un nome, se posso. Jimmy ha abitato per molto tempo dietro la mia libreria, prima di sparire (potrei averlo aspirato col Dyson per sbaglio). Huggin’ Molly no, era davvero troppo grossa—più grossa di Tom Due Dita—per affrontarla a cuor leggero. Invece si scopre che è buona. Che aiutava Lacey, la mamma di Hazel, e tutti i bambini poveri e maltrattati dalle rispettive famiglie. Che bel nome, Hazel. Ma anche Lacey, Itchy, Beaux, Rhubarb, Benjy, Crouton, Laurent, Mahalia. Come suonano bene. Sono già musica.

Un altro bel nome è Jolene. Jolene, la cantante papessa. È forse colpa sua, se Tom Due Dita è diventato enorme? Un alligatore delle dimensioni di un’isola che divora i maiali dell’allevamento locale. E le mosche ronzano tra morte e squallore per tutta la palude, mentre i ricconi si preparano a sfrattare & gentrificare. No, non è colpa di Jolene. È colpa di suo padre che la picchiava, quando lei era piccola, e affamava Tom. E poi Tom s’è mangiato il vecchio quando Jolene ha suonato il campanaccio. Ma anche lui, il vecchio, pover’uomo, avrà avuto i suoi problemi, i suoi buoni motivi per diventare il mostro di cattiveria che era. Patetico. Ma il blues è sempre patetico. Come lo sono tutte le musiche popolari, che poi non sono mai solo musica, ma un modo di stare al mondo. Provate ad ascoltare il blues, il bluegrass, la musica cajun, ma anche il flamenco o la taranta (Molly?). E tutte le musiche popolari della civiltà occidentale del Novecento. Il dark, il punk, il grunge, il rock’n’roll, eccetera. Raccontano storie semplici, che fanno piangere e amare in modo altrettanto semplice, spesso melodrammatico. Non è mai roba troppo sofisticata. È come l’opera per chi non ha soldi e tempo per andare a teatro a vedere l’opera. E dice sempre la stessa cosa: non è solo colpa tua.
Per quanto il finale di South of Midnight sia sbrigativo e raffazzonato, dice una cosa altrettanto semplice e chiara. Nemmeno la perfida Bunny Flood è del tutto cattiva. Ha perso la figlia Cherie e vorrebbe solo riaverla indietro. Il vero colpo di genio di South of Midnight è non farti combattere contro Bunny. Evitare la boss fight finale, perché non avrebbe avuto senso. È giusto così: condannare Bunny a vivere un’illusione eterna nel mondo di mezzo di Kooshma, perché il suo trauma è troppo intenso e ha corrotto un’intera comunità. Questa cosa è molto vera. Comunità piccole, traumi enormi che possono travolgerle completamente. Esistono ancora le tessitrici? Esistono ancora persone in grado di tenere insieme le persone? Di guarirle? Possiamo reintegrare nelle istituzioni queste figure sciamaniche che hanno guidato le nostre comunità quando non esistevano ancora gli assistenti sociali come Lacey, quando medici e dentisti erano barbieri che suonavano il violino e il mal d’amore si curava con intrugli e pozioni magiche proprio come la gotta o un braccio rotto?

Il blues serve anche a questo. A curare, a ricucire l’arazzo, grande o piccolo, di una comunità. O almeno gli strappi dei singoli. In un uliveto dietro casa mia c’è un vestito da sposa appeso, direi quasi intrecciato a un albero. Ai suoi piedi c’è un cuore di stoffa fissato al tronco con del fil di ferro. Questa roba è lì da sempre, che io sappia. Non so cosa racconta, ma è già una storia da South of Midnight e scommetto che è molto triste. E poi c’è una canzone nelle campagne di questa zona che fa così: “Come si raccolgono le olive? Una alla volta, per far dispetto al padrone”. Chiaramente in dialetto è un’altra cosa, come l’inglese afroamericano tutto smangiucchiato parlato da Hazel o dal Pesce Gatto di South of Midnight. Più che il blues, South of Midnight ha il pregio di aver introdotto nei videogiochi questa lingua, questi accenti. Questi suoni che sono già blues, e che al pari del blues si portano dentro tutto il sangue dello sfruttamento, della schiavitù, della violenza dell’uomo su altri uomini e altre donne.
Ma un videogioco che dentro ha il blues, è anch’esso blues? Può avere il suo stesso effetto curativo? È davvero come salire in barca con Shakin’ Bones (o Robert Johnson, se preferite) per farsi traghettare oltre l’incrocio in cui la realtà incrosta se stessa, e si fa grigia? Difficile da dire. In un videogioco l’atto creativo tipicamente umano—la voce—è troppo diluito nel lavoro di molti, forse, perché possa essere avvertito con la giusta intensità. Ma questo succede anche col cinema. Allora il problema è che c’è troppa tecnologia, nei videogiochi? Non lo so. O forse troppo marketing. Troppo sappiamo-chi-sei-dove-sei-cosa-vuoi-e-te-lo-daremo-fino-a-farti-annegare-in-questa-patacca-infinita-A-per-cui-hai-appena-sborsato-un-sacco-di-soldi. South of Midnight limita quantomeno i danni: dieci, dodici ore al massimo, nessuna sensazione di tirare troppo la corda per trattenerti contro la tua stessa volontà. Nessun maleficio. Nessun sortilegio.

Anche perché poi questi dannati videogiochi non li finisce nessuno, e tutti gli WOW! o gli SCAFFALE! vengono spesso da critici e recensori che avranno giocato sì e no metà del titolo in questione. Io poi arrivo in fondo e mi chiedo a che razza di gioco abbiano giocato questi. Ma il fatto è che non c’è tempo per entrare davvero in connessione con un videogioco. E sempre meno tempo anche per dischi, libri, film. Capita anche a me di aprire un libro e pensare: oh no, che diavolo vuoi dalla mia vita? E lo richiudo subito dopo. Ma forse è solo che sono libri sbagliati. O videogiochi sbagliati. Di libri sbagliati, difettosi e riusciti a metà ne ho letti un mucchio, in passato, e mi piacevano più dei capolavori. Il capolavoro tende a sopraffarti. Ti acceca, non ti fa vedere altro che la sua magniloquente presenza nella tua vita. Nelle opere piccole e apparentemente meno riuscite ci sono gli esseri umani con le loro ambizioni sbagliate, i loro obiettivi artistici oggettivamente irraggiungibili. L’essere umano si manifesta sempre nella sproporzione evidente. Se dovessi tracciare un parallelo tra South of Midnight e qualche libro cosiddetto minore, mi verrebbero in mente le opere di autori come Richard Brautigan, John Kennedy Toole, Flannery O’Connor (ampiamente citata nel gioco) e forse Kent Haruf. Questi, molto più che William Faulkner, anche se il Faulkner di Mentre morivo è decisamente a sud della mezzanotte. “Mia madre è un pesce”, scriveva su una pagina lasciata per il resto bianca e immacolata.
Ma perché parlo di libri? È strano, ma non di rado le influenze degli sviluppatori di videogiochi affondano nella letteratura, mentre chi gioca non ne sa nulla. Spesso nemmeno chi parla o scrive di videogiochi per lavoro. Ma che importa? In fondo è così che si genera altra letteratura, altra vita da altra vita (o altra morte da altra morte): perdendo le fonti, ignorandole bellamente. Qualcuno, non ricordo chi, ha detto che South of Midnight sarebbe stato un ottimo film d’animazione, mentre come videogioco è un po’ meh, dato che il suo gameplay non offre poi molto di innovativo o particolarmente riuscito. Il che è vero. Ma come film, Souht of Midnight sarebbe stato un prodotto d’intrattenimento tra i tanti, per quanto bello e curato, da dimenticare un attimo dopo averlo visto. Come videogioco, credo che me lo ricorderò finché campo.